Racconto di Giulia Criscione

(Prima pubblicazione – 25 gennaio 2019)

 

“Osvaldo! Svelto! Va a comprare il pane!” mi urlò Brunilde infuriata. I suoi capelli ingrigiti e ispidi eran quasi ritti sulla sua testa bitorzoluta.

“Vado cara, quanto ne compro?” domandai quieto.

“È mai possibile che io debba dirti sempre tutto?”

“Ma cara…” tentai prima che lei mi tirasse appresso il mestolo di legno sporco di sugo di coniglio. Guardai l’oggetto schiantarsi contro il muro del salotto prima di uscire di casa sconfitto senza emettere un fiato.

Una volta arrivato in strada, mi sentii meglio. Gli abitanti del mio paese si stavano dando un gran da fare come ogni mattina. Sorrisi impacciato quando Ernesto, l’imbianchino, si fermò a salutarmi continuando a sorreggere su di una spalla come se nulla fosse quella che aveva tutta l’aria di essere una trave di legno massiccio.

“Se fossi prestante come te mio caro Ernesto, forse Brunilde mi amerebbe!” esclamai in modo teatrale.

“Se ella ha giurato il falso dinnanzi a Dio il giorno della vostra Sacra Unione, forse dovresti lasciarla, non star qui e sperar d’esserciò che non sei” mi rispose il baldo giovane. Annuii abbassando il capo.

“Se fossi in te caro Osvaldo, scapperei lontano in cerca di fortuna e lo lascerei quel Diavolo di tua moglie Brunilde!” esclamò poi prima di andarsene a passo svelto.

La seconda persona che incontrai fu il cuoco dell’osteria. 

“Osvaldo!” esclamò con voce stridula, “Stai bene? Hai una pessima cera! Lascia che ti offra un po’ di stufato di agnello, quello caro mio, ti rimette al mondo!” 

Abbozzai un piccolo sorriso, poi risposi. 

“Non darti pensiero per me Teodoro, e poi, te la immagini mia moglie Brunilde se non torno in tempo per il pranzo con il pane?”

“Oh! Quella donnona odiosa! Se mai un giorno decidessi di cercartene un’altra sappi che tutto il paese ne sarebbe contento.”

Mi feci pensieroso, ma in fondo Teodoro era un mio caro amico, avrei di certo potuto dare adito alle mie preoccupazioni vicino al suo orecchio.

“Tu pensi che potrei essere di nuovo me stesso senza lei al mio fianco? Ti prego d’esser sincero.” 

“Liberati di quel Diavolo di donna!” mi incalzò.

“Ma… ma la casa è sua! Non posso buttarla sul ciglio di una strada” 

“Allora vai via tu. La vita è troppo breve, nessuno di noi può concedersi il lusso di un’esistenza infelice!” borbottò lui per poi darmi le spalle e rientrare nell’osteria.

Ero infelice, ma non audace abbastanza per prendere posizione e liberarmi di un fardello simile. Se avessi detto a Brunilde che non la volevo più al mio fianco probabilmente mi avrebbe malmenato, e il solo pensiero mi fece tremare dentro le vesti. 

“Buon giorno Osvaldo!” l’udire la vocina della piccola Brigitta mi destò dai miei infausti pensieri. 

“Giorno riccioli d’oro,” risposi sorridente, “Che fai?”

“Gioco con questa pallina rossa e lei?”

“Vado a comprare il pane, Brunilde ha fatto il sugo di coniglio per pranzo”

“Mi piacerebbe venire a mangiare da voi! Posso signor Osvaldo?” la bambina arricciò il labbro e io mi ricordai solo in quel momento quanto mia moglie odiasse i bambini. Negli anni passati l’avevo tanto pregata di donarmi un pargolo da stringere al petto, ma lei era stata categorica e mi aveva sempre negato quella desiderata opportunità. 

“Mi dispiace Brigitta, ma c’è sugo solo per due, magari domani, o doman l’altro” 

La piccola non rispose, si limitò a darmi le spalle e a continuare per la sua strada. Mi sentii un verme e il cuore mi si strinse nel petto. 

Superai la coppia di amanti più famosa e invidiata della città : Beatrice e Ferdinando, gli inseparabili, e finalmente arrivai da Bruno, il panettiere.

“Salve signor Osvaldo, sua moglie non è passata stamattina a ritirare i viveri, sta bene?” mi domandò Matilde, la corpulenta e pettegola moglie del panettiere. Capelli radi e vestiti sgualciti, non esattamente quel che si dice un belvedere di donna.

“Purtroppo sta benissimo” mi ritrovai a rispondere, stupendomi poi di cotanto coraggio. Il viso di Matilde si trasformò in un’espressione di pura indignazione. L’esemplare offeso di femmina sparì senza proferir parola nel retro bottega, lasciando così me e Bruno soli a guardarci. 

“Lascia perdere mia moglie buon Osvaldo, sai che Brunilde le sta tanto a cuore. Chi si somiglia si piglia no?”

“Già” 

“Vedi, le donne le devi domare. Son creature difficili. Sacre senza dubbio perché danno la vita, ma pur sempre difficili.” 

“Tu hai domato Matilde?”

“Certo che l’ho fatto. Una volta son sparito per tre giorni amico mio, e quando son tornato lei mi ha detto che avrebbe smesso di lamentarsi per ogni cosa! Poi ovviamente non lo ha fatto, ma ogni tanto quando esagera le dico che se non la smette potrei sparir di nuovo e chissà, magari non tornar mai più! E come piange quando lo faccio!” 

Rimasi colpito profondamente da quella storia. Forse, il buon Bruno aveva ragione. 

Feci un dialogo mentale con me stesso prima di rendermi conto che non avevo ancora comprato il pane. 

“Quindi cosa ti do? Una ciabatta? Delle rosette?” 

“Non darmi niente Bruno, non ne ho più bisogno.” mi apprestai ad annunciare prima di salutare il panettiere e tornare fuori. 

I raggi del tiepido sole di mezzogiorno rischiaravano la strada principale rimasta ormai quasi deserta. Mi incamminai verso l’incrocio e una volta arrivato ruotai la testa prima a destra, potendo scorgere così la mia modesta abitazione in fondo al vicolo, e poi a sinistra, per osservare il sentiero sterrato che portava alla stazione dei treni. Dopo un attimo di titubanza andai dove mi portava il cuore, perché così era deciso. 

Era passata una settimana da quando ero salito sul quel treno per recarmi il più possibile lontano da Brunilde, ed il più possibile vicino ad un’esistenza fatta di pace, ma lo sguardo torvo di mia sorella mi fece sentire inquieto quel pomeriggio. “Dimori a casa mia da sette giorni ormai, ma non c’è traccia di serenità sul tuo volto Osvaldo” disse Gisella senza spostare lo sguardo dai ferri dell’uncinetto. 

“Tu credi mia dolce sorella? E che dovrei fare secondo te affinché la luce possa arrivare a rischiarare la mia sciatta esistenza?” 

“Tornare dal quel Diavolo di tua moglie Brunilde, poiché è a lei che si lega la tua vita”

“Ma ella mi disprezza, tu credi che senta la mia mancanza adesso che m’ha perduto?” domandai speranzoso. Gisella puntò i suoi grandi occhi color del prato nei miei e sentenziò : “Questo io non posso saperlo, ma tu torna a casa e scoprilo, perché in cuor tuo sai che non vuoi star separato da lei.”

Passai l’ora successiva in preda all’agitazione, ma poi mi decisi a tornarmene da dov’ero venuto. Il treno mi ricondusse sui miei passi, e nel percorrere il vialetto di casa sentii il cuore martellarmi nel petto, le mani sudare copiosamente. Avrei trovato Brunilde in lacrime, perché lei era mia moglie e non poteva vivere senza di me. Il rumore della chiave nella toppa mi liberò dal turbinio di pensieri riportandomi alla realtà. Entrai in casa quasi in punta di piedi e lì la trovai voltata di spalle, intenta a cucinare. Sorrisi rivedendola. 

“L’hai preso il pane razza di idiota?”