Racconto di Donatella Rabiti

(Quarta pubblicazione)

 

Appena giunto all’esterno, sentì l’aria entrare con forza attraverso le narici e incunearsi dentro i polmoni con un graffio improvviso e freddo. Gli altri non ne avevano voluto sapere di farsi liberare e uscire fuori dalla caverna. Lui aveva approfittato del cambio di turno dei sorveglianti e con una mossa fulminea aveva strappato le catene consumate ed era fuggito.
C’era sempre stata una grande differenza tra lui e i compagni con cui aveva trascorso tutta l’esistenza tra quelle pareti grigie, bagnate dall’umidità che scivolava gocciolante dal soffitto intriso di muffa e muschio. La falce di Luna che di notte entrava dall’apertura alle loro spalle e si rifletteva sulla parete di fronte a loro gli aveva aperto una fessura nella mente. E quella piccola breccia si allargava sempre più, lasciando passare pensieri che si stampavano nella memoria e non se ne andavano. “Cosa c’è oltre questo luogo? Perché siamo nati e cresciuti dentro questo anfratto di roccia chiusa su di noi? Inizia e finisce tutto così?”
Le sue gambe non avevano mai camminato, le sue braccia non si erano mai alzate oltre l’altezza della bocca per mangiare, le sue mani non avevano mai toccato una creatura vivente del mondo esterno e i suoi occhi ora non riuscivano a sostenere la luce violenta che proveniva da un disco giallo enorme, posto in alto in una dimensione azzurra e trasparente. Alzò il capo e rimase accecato. Dovette abbassare immediatamente le palpebre. Provò a riaprire piano gli occhi e la prima cosa che scorse fu un’ombra che partiva dai suoi piedi e lo seguiva nei movimenti. Si fermò e anche lei fece lo stesso. Riprese a camminare e quella, senza smettere di tallonarlo, teneva il passo senza modificare l’andatura. Nella grotta le ombre erano state l’unica compagnia che provenisse dall’esterno: si profilavano con dimensioni diverse a seconda dell’ora e della stagione. Nei mesi freddi si allungavano nella parete di fondo, in quelli caldi si rimpicciolivano e si scorgevano appena all’ingresso. Quando spariva la luce bianca della Luna arrivava un’illuminazione più forte che creava forme più nitide di quelle argentee della notte. Lui si era accorto della differenza, ed era stato l’unico a voltarsi verso la direzione da cui provenivano i raggi che generavano le ombre. Gli altri no, non erano mai stati interessati all’origine di quello strano fenomeno. Per loro era sempre stato così e non serviva conoscere altro.
L’uomo sapeva chi era la Luna, la regina che governava le tenebre, ma chi fosse la forma circolare accecante che lo stava colpendo con i suoi raggi dall’alto non lo sapeva. E l’ombra che partiva dai suoi piedi continuava a seguirlo. Proseguì fino al termine della strada ghiaiata, dove un bivio conduceva in due direzioni opposte, a destra verso la montagna, a sinistra verso un’enorme distesa senza confini di una tonalità non meno accecante di quello del disco posto in alto, ma diversa e fredda, di un colore indefinito tra il verde e il blu. Si fermò a pensare e si accorse, per la prima volta da quando era uscito dalla caverna, di essere solo. Aveva fatto bene ad andarsene? L’ambiente chiuso e poco illuminato della caverna gli era familiare e sapeva cosa c’era attorno a lui e chi erano gli altri uomini. Ora, se si voltava verso la montagna vedeva creature fissate a terra con grandi braccia verdi che si piegavano al vento, e sopra di esse il disco giallo incastonato in una dimensione priva di confini, senza nulla di somigliante al soffitto gocciolante e grigio che l’aveva protetto da sempre. Girandosi verso il basso, la vista era riempita da uno spazio che non si poteva misurare e travalicava ogni immagine che la sua fantasia, in tanti anni trascorsi dentro la grotta-prigione, aveva concepito. Il custode che portava quotidianamente il cibo ai prigionieri si era spesso divertito a spaventarli, raccontando qualche brandello di storia della vita degli uomini che vivevano fuori e narrando le atrocità che capitavano a coloro che si erano inoltrati fuori dalla caverna. Lui si era creato un’idea personale del mondo esterno, proprio attraverso le figure generate da quei racconti incompleti, a cui mancava sempre un finale coerente.
Non prese né l’una né l’altra direzione. Decise di non seguire un percorso già battuto, di non percorrere una strada costruita da altri. Avrebbe camminato in mezzo alla natura, dove nessun altro era già passato. Si inoltrò dentro a un bosco di betulle cresciuto ai margini del bivio.
I rumori degli animali lo impaurirono perché i suoi orecchi non avevano mai sentito i gorgheggi, i versi delle bestie selvatiche in amore e i ronzii vicino al viso. Una farfalla gialla gli si pose su un braccio: lentamente l’uomo alzò il suo arto per vedere da vicino la creatura che sbatteva le ali senza sosta. All’improvviso l’insetto si staccò da lui e si alzò posandosi sulla tenera foglia appena germogliata di una betulla. Riconobbe la forza che quel giorno l’aveva spinto ad abbandonare il consueto e il conosciuto: la libertà di scegliere se rimanere o andarsene dalla prigione. E la farfalla, come lui, aveva scelto di volare via. Poi una figura scura planò sulla fragile creatura e la racchiuse dentro al becco. Un corvo aveva trovato il suo pasto. L’uomo sentì il rumore di un ruscello che scorreva non lontano e si accorse di avere sete. L’acqua gelata che scivolava dentro il suo corpo gli ridiede l’energia per proseguire.
La sua ombra lo accompagnava solo nei tratti di selva in cui i rami frondosi delle piante lasciavano passare i raggi obliqui del disco luminoso che ormai stava sparendo dietro la montagna. La Luna intanto saliva leggera nello spazio blu in alto, mentre la stanchezza stava intorpidendo le membra dell’uomo, che abbassò lo sguardo sul suo corpo stanco e senza una meta. Si stese sopra un giaciglio improvvisato, un mucchio di foglie che il vento aveva deposto ai piedi di un grande albero. Si addormentò quasi subito. Era strana la facilità con cui si era abbandonato all’incoscienza del sonno, lui che nella grotta era solito vegliare ogni notte cullato dai pensieri e dalle idee che nascevano nella sua mente, mentre i compagni russavano e dormivano senza incubi.
E lì fuori, nel mondo esterno, al freddo e senza riparo, per la prima volta in vita sua sognò. Si trovava in un luogo aperto senza confini, e c’erano anche i suoi compagni della grotta che gridavano per la gioia perché lui li aveva liberati. Piangevano e ridevano allo stesso tempo, lo abbracciavano e gli si inginocchiavano davanti come a una divinità. Lui si scherniva e li faceva rialzare, dicendo che aveva solo pensato di provare ad uscire dalla caverna per vedere com’era il mondo fuori. Gli era sembrato triste non condividere con loro le sue scoperte: che l’aria entrasse di filato nei polmoni, e l’acqua scendendo nelle viscere desse forza per camminare; che gli spazi infiniti non avessero pareti umide per impedire di conoscere cosa ci fosse oltre, e che le farfalle potessero decidere di posarsi su un braccio e poi di volare via senza preavviso.
Un brivido lo percorse: un essere lucente sotto il bianco lattiginoso della luna si stava attorcigliando attorno alla sua gamba sinistra. Si svegliò e rimase immobile ad osservare la strana creatura che lo aveva scelto come appoggio per cambiare pelle: con movimenti sinuosi di danza ancestrale si svestì della copertura variopinta che aveva indossato fino a quel momento e lasciò intravedere un nuovo abito multicolore, brillante nella sua lucentezza. Un serpente bellissimo si sciolse dall’abbraccio improvvisato che gli aveva donato e si allontanò nella radura. Ormai era l’alba, il sogno era evaporato e non sarebbe più ritornato, perché la notte era terminata e i primi raggi del giorno si erano già posati sulla rugiada delle foglie del sottobosco.
L’uomo si ricordò di non aver mangiato da quando aveva oltrepassato l’apertura della caverna. L’eccitazione e la meraviglia per le novità del giorno prima avevano anestetizzato i bisogni fisici del suo corpo, ma un pensiero martellante si era stabilito nella sua coscienza: aiutare i compagni rimasti legati nella cavità oscura sotto terra. Avrebbe voluto muoversi liberamente come la farfalla gialla e la serpe variopinta, avrebbe voluto cambiare pelle e volare lontano, nello spazio infinito dove splendeva il disco giallo o nella distesa verde azzurra che là in basso si muoveva creando dei rilievi ondulati che andavano e venivano con cadenza regolare. Ma si sentiva richiamato dalla grotta. E si volse verso il percorso che aveva fatto solo alcune ore prima: guardò il tracciato che le sue orme avevano creato sotto l’ombra delle betulle. Stette un po’ a riflettere. Lentamente, spostando senza convinzione una gamba e poi l’altra, iniziò il viaggio di ritorno.
Lungo il tragitto rivide le immagini che l’avevano colpito all’andata e provò una melanconica nostalgia per l’entusiasmo che l’aveva dominato il giorno prima e che ora doveva mettere da parte. Sentiva il dovere del ritorno al buio della grotta. Salutò il disco accecante in alto e la distesa verde azzurra in basso, aperta verso l’orizzonte senza limiti. E si avviò all’imboccatura della caverna.
Dopo il primo passo dentro l’anfratto roccioso gli mancò il respiro per il tanfo a cui non era più abituato. Gli altri lo scorsero con la coda dell’occhio e iniziarono a chiamarlo ad alta voce. Il guardiano preposto alla sorveglianza del mattino lo vide dal fondo dell’antro e prese subito la frusta. All’uomo bastò pochissimo per capire che se fosse rimasto avrebbe dovuto accettare di nuovo la segregazione, la fissità della posizione del corpo incatenato e rivolto al muro, la mancanza di scelta, l’abbandono definitivo della visione del mondo. E il coraggio di decidere si fece avanti, forte. “Non puoi restare. Sei uomo, larva o ombra? Decidi ora, e sia per sempre”.
La voce che gli proveniva da dentro apparteneva alla sua anima. Finalmente era venuta allo scoperto e gli chiedeva di vivere. Guardò un’ultima volta gli uomini incatenati e rivolti verso la parete, intenti ad osservare le ombre proiettate dal mondo esterno, si girò e scomparve alla vista dei prigionieri che non considerava più compagni. Il guardiano rimase interdetto e non riuscì ad agire in tempo per fermarlo. Non era mai successo, da quando svolgeva il servizio di controllo della specie umana in quella regione, che un individuo decidesse di scegliere l’imprevisto, la solitudine, i problemi, il dolore e la morte che attendevano tutti gli umani fuori dalla grotta. Nessuno, fino a quel momento, aveva mai preferito scambiare la sicurezza, il cibo quotidiano e la mancanza di responsabilità che offriva l’esistenza nella caverna con la libertà pericolosa che attendeva chi usciva da lì. Nessuno che avesse messo piede fuori, al di là delle umide pareti sotterranee, era sopravvissuto più di qualche giorno. Chi era riuscito a vivere era sempre ritornato, implorando di essere riammesso nella comunità segregata della cavità rocciosa, perché la libertà era di gran lunga più pericolosa della vita che avevano conosciuto lì dentro.
Ed invece quell’individuo sceglieva di inoltrarsi per le strade insicure del mondo. Il sorvegliante non riusciva a comprendere: “Che strano tipo. Peggio per lui. Qui non avrebbe avuto la libertà, ma non sarebbe vissuto nel continuo bisogno di trovare ogni giorno le soluzioni per i problemi della vita. Qui è richiesta un’unica cosa, la sottomissione.”
Giunto vicino al bosco di betulle, l’uomo si fermò a riflettere: la sua vita era precaria, di lì a poco avrebbe potuto essere sbranato da una bestia feroce, o inciampare lungo il cammino e finire in un burrone. Non sapeva se avrebbe trovato cibo o riparo per la notte. Ma proprio la consapevolezza della propria fragilità di creatura umana gli faceva sentire intensa una forza che lo spingeva a vivere, cercare, creare, sbagliare, ricominciare, respirare e amare l’essenza del mondo.
Guardando i talloni scorse l’ombra che lo seguiva dal giorno avanti. Ed ebbe un moto di pietà per sé e per lei: “Povera amica in perpetuo movimento, che segui un essere senza meta come me. Io ti lascio libera. Cerca la tua strada, come io cercherò la mia”. L’ombra gli rispose: “La mia forma stampata sul terreno ti ricorda che sei fatto di materia e non solo di spirito. Hai fatto uscire la tua anima dall’oscurità della grotta, e io ora ti condurrò nel mondo. Qui sulla Terra il tuo essere potrà divenire completo solo se l’anima rimarrà unita alla carne”.
Quell’uomo ebbe un’esistenza fatta di cadute, privazioni, dolori, ma anche soddisfazioni, passioni, amori e speranze. Non si pentì mai della decisione presa in pochi secondi la mattina in cui era ritornato alla grotta. Ogni tanto ripensava ai compagni rimasti là; ma negli anni il senso di colpa per averli abbandonati fu sostituito dalla certezza che non avrebbe potuto dare la libertà a chi non aveva rischiato, come lui, per conoscere il mondo fuori dalla caverna. E forse erano state la sua diversità e la sua caparbietà a salvarlo. Perché la libertà va conquistata, non regalata.