Racconto di Gaetano Pepe

(Seconda Pubblicazione – 26 febbraio 2019)

 

«È lei Giovanni Ferretto?», chiesero.

«Non volevo farle nulla di male. Giuro», rispose lui.

«Non è con me che deve giustificarsi. Mi segua».

«Posso venire così?»

«Perché no?»

«Sono in pigiama».

«Non abbiamo tempo. La prego di seguirmi».

Giovanni Ferretto chiuse la porta a chiave, ricordandosi di aver lasciato la luce del bagno accesa.

«Ne avremo per molto?»

«Quanto basta per poterla ascoltare e valutare con calma».

«Le ripeto che non volevo farle nulla di male».

«Le credo, ma non è con me che deve giustificarsi. Ha portato un documento con sé?»

«Veramente no, sono uscito senza portafogli».

«Nemmeno un documento d’identità?»

«Sono in pigiama, signore».

«Il giudice si arrabbierà».

Il Tribunale era dall’altro lato della città. Le grandi colonne che lo sostenevano erano fredde al tatto. Giovanni Ferretto ci si appoggiò per un attimo, come stanco. Le osservò dal basso verso l’alto, poi riabbassò lo sguardo, guardando all’interno.

«È affollato oggi», disse con totale disinvoltura.

«Lo è sempre. Siete ogni giorno di più».

«Le ripeto che non volevo farle nulla di male».

«Non è con me che deve giustificarsi. Tra poco incontrerà il giudice. Sono sicuro che ascolterà le sue ragioni».

«Per stasera sarò a casa?»

«Se è innocente, sì. Per cena già potrà andare via».

Salirono le scale a piedi, evitando l’ascensore.

«Qui c’è meno gente», sussurrò Giovanni Ferretto.

«Gli altri sono dentro. Ha un avvocato?»

«Purtroppo non sapevo di dover venire qui».

«Gliene assegneranno uno, sarà difeso molto bene».

«Ne sono felice. Per pranzo posso uscire?»

«Non credo. Sarete nel pieno del processo».

Il corridoio era quasi deserto. Altre persone erano sedute come lui, in attesa di essere processate. Alcune erano ammanettate, altre no. Giovanni Ferretto si osservò le mani, poi aprì le braccia, per assicurarsi di non avere impedimenti.

«Io non ho le manette?», chiese.

«Può stare senza».

Le porte dell’aula si aprirono all’improvviso, facendolo sobbalzare.

«È il mio turno?», chiese.

«Usciti tutti, può entrare lei».

Il giudice era in piedi, gesticolando e parlando animatamente con una donna in tailleur.

«È lei l’imputato?», chiese gridando.

«Sì, dovrei essere io».

Si avvicinò ai documenti che aveva lasciato sul tavolo.

«Giovanni Ferretto».

«Sono io».

Lo osservò, cambiando espressione, poi continuò a leggere attentamente.

«Si segga e rimanga in silenzio. Il processo inizierà a breve».

Si sedette in prima fila, aspettando. Si girò per cercare di capire cosa stesse dicendo il funzionario al giudice.

«Non ha con sé un documento d’identità?», gridò dal fondo dell’aula.

«No. Sono stato preso alla sprovvista e me ne scuso», rispose.

«Tutto ciò non è positivo», continuò il giudice avvicinandosi.

Si sedette al suo posto, guardando l’orologio. In pochi minuti la sala si riempì. Giovanni Ferretto cercò dei volti noti, inutilmente. Un giovane uomo, gli strinse la mano sorridendogli.

«È un piacere conoscerla, signor Giovanni Ferretto. Sono il suo avvocato. Di cosa è accusato, se non risulto scortese?»

Fu richiamato il silenzio in aula, tutti si accomodarono e smisero di parlare.

«Signor Giovanni Ferretto. Lei è accusato di pizzicidio», esordì il giudice. «Racconti, per favore».

«Sì, è vero».

«Racconti, le ho detto. Abbiamo poco tempo», insistette il giudice.

Rimase in silenzio per un istante, poi riprese. «Ieri sera ero solo in casa, come capita spesso. Non avevo nulla, ero sprovvisto di qualunque cibaria e così sono sceso in strada per mangiare qualcosa».

«Lei sa che mangiare pizza è illegale da anni», interruppe il giudice.

«Certamente, ma giuro di non aver fatto nulla di male».

«Questo è tutto da vedere, signor Giovanni Ferretto. Continui».

«Sono entrato in un locale e ho bevuto una birra, poi un’altra. Credo di averne abusato e di essermi ubriacato».

«E questo complica le cose», interruppe ancora il giudice.

«Allora lei, signor Giovanni Ferretto, non era nelle sue piene facoltà. La sua lucidità era parziale, se non addirittura assente, a causa della notevole quantità di alcolici assunti», esordì l’avvocato difensore.

«Forse sì. Dopo aver bevuto tre o quattro birre, ho notato che, in un’altra sala dello stesso locale, stavano mangiando. Mi sono avvicinato e ho visto che stavano mangiando pizza. È stato allora che ho ceduto e ne ho ordinata una».

«Di che nazionalità erano i mangiatori di pizza?», chiese il giudice.

«Non saprei. Non erano uguali a noi, comunque».

«Esponga, la prego».

«L’odore invitante mi ha portato ad ordinare una pizza e ad attendere proprio lì, nella sala in cui tutti stavano mangiando. Mi è sembrata la cosa più naturale del mondo, mi creda. Non volevo farle del male».

«Mi dispiace contraddirla, ma lei ha commesso un grave atto».

«Ha ragione e me ne pento. Arrivata la pizza ho preso il coltello e ho iniziato a tagliarla. Solo quando avevo finito di dividerla in otto spicchi tutti uguali, ho lasciato le posate sul tavolo e ho iniziato a mangiare».

Un bisbiglio insistente in aula interruppe il racconto.

«Ricorda dettagliatamente il momento in cui si è consumato il reato».

«Era dal mattino che non mangiavo. Ne avevo bisogno e ho vissuto intensamente l’attimo in cui ho dato il primo morso».

Un silenzio gelido abbracciò l’intera aula. Il giudice deglutì guardando nel vuoto, l’avvocato difensore si voltò verso la finestra, per dissociarsi.

«Non ho pensato alle conseguenze», cercò di giustificarsi Giovanni Ferretto.

«Cosa ha fatto in seguito?»

«Ho continuato a mangiare finché non ho finito la pizza, fino all’ultimo boccone. Nella sala vedevo le facce compiaciute di tutti, un uomo brizzolato mi ha anche chiesto se mi piaceva e se era buona e io ho risposto di sì, che era buonissima e che ne avrei mangiata un’altra».

«Basta, signor Giovanni Ferretti. La sua crudeltà era consapevole e ha reiterato l’atto numerose volte, fino a quando non ha lasciato traccia alcuna della vittima».

«Non credevo fosse così grave, signor giudice. Me ne dispiaccio».

Il giudice uscì dall’aula, gli spettatori si scambiavano informazioni sull’imputato e sembrava lo facessero apposta, per farsi sentire e per sottolineare la crudeltà dell’accaduto. Giovanni Ferretto non credeva che mangiare una pizza fosse così grave. ‘Spero non abbia sofferto troppo’, iniziò a pensare. ‘Quando l’ho infilzata con la forchetta e poi ho iniziato a tagliare le avrà fatto un male cane’, continuò a riflettere.

«Signor Giovanni Ferretto, credo che non abbiamo speranze. Il giudice è molto severo nei confronti di reati come questi», disse l’avvocato difensore.

«Lo capisco, sono stato un ingenuo. Mi merito una pena esemplare», disse l’imputato. «C’è il rischio di rimanere in carcere a vita?», chiese.

L’avvocato gli fece cenno di alzarsi, il giudice rientrò ridendo, poi, d’un tratto, ridivenne serio, continuando ad accennare una leggera smorfia d’ilarità.

«Condanno il signor Giovanni Ferretto a trenta anni di reclusione per aver commesso il reato di pizzicidio. Così è deciso».

Un applauso si alzò dagli spettatori, qualcuno gridò qualcosa di incomprensibile, forse delle frasi di soddisfazione per la sentenza inflittagli.

L’avvocato difensore si allontanò senza salutarlo, rincorrendo la donna in tailleur che lui stesso aveva visto prima del processo.

«Non posso andare a casa stasera?», chiese ad un funzionario.

«Non credo. Andrà in carcere», gli risposero.

«C’è un televisore?»

«Fino a ieri c’era, ma non ci giurerei. A volte lo rompono e rimane guasto per mesi».

Giovanni Ferretto fu portato nella cella quarantasette, insieme ad altri due detenuti, colpevoli dello stesso reato. Appena entrato, guardò fuori attraverso la finestra sbarrata, poi chiese:

«Credete che ora che sono qui andranno a controllare nel mio frigo?»

«Perché mai?», chiesero.

«Perché al processo ho mentito. Ieri sera non ho mangiato tutta la pizza. Ne ho lasciato un pezzo intero, per portarlo a casa. L’ho messo nel tovagliolo che avevo sul tavolo e l’ho nascosto nella tasca della giacca, per poi metterlo in frigo. Sono stato preso alla sprovvista e non ho potuto eliminarlo».

I compagni di cella si guardarono negli occhi, poi si girarono verso di lui:

«Non preoccuparti, custodiremo il tuo segreto fino alla fine. Ora rilassati che stasera in tv trasmettono ‘Che vinca il peggiore’».

«Ottimo», disse Giovanni Ferretto. «Il mio programma preferito».