Racconto di Silvio Fazio

(Seconda pubblicazione – 28 aprile 2021)

 

 

Una sera d’autunno, solo e senza impegni, avevo pensato di andare al cinema ed ero pronto per uscire. Prima però guardai fuori dalla finestra. Era piovuto tutto il pomeriggio e non sapevo se prendere l’ombrello o meno. Pioveva ancora tanto e aveva fatto buio presto. Le luci della strada, delle vetrine illuminate dei negozi, delle insegne, delle pubblicità si rompevano in mille riflessi colorati confondendo i contorni di ogni cosa. Restai alla finestra a guardare affascinato, strizzando gli occhi per sfocare volutamente ancora di più le forme e le luci, e non ebbi più voglia di uscire. Decisi quindi di restare a casa a passare la serata, seduto sulla mia comoda poltrona Chesterfield con un buon bicchiere di Gostave da centellinare e, naturalmente, un buon libro. Scelsi un’antologia di fantascienza e il titolo del primo racconto mi fece un po’ sorridere per la coincidenza: era “Pioggia senza fine” di Ray Bradbury. La storia narrava del tentativo di tornare al campo base di alcuni astronauti perduti su Venere dove la loro nave era precipitata. Il loro cammino verso la salvezza, una cupola di vetro color del sole, era però ostacolato da giorni e giorni da una pioggia incessante, ossessiva, acida che ne impediva i movimenti, il camminare, il pensare, il vedere, il respirare. Era veramente facile impazzire o lasciarsi andare nel fango. La descrizione era talmente realistica che mi sembrava di essere lì, ad annaspare soffocando in un’acqua che cadeva senza pietà, senza fine. Ad un tratto mi accorsi che le pagine del libro si erano completamente bagnate, così come bagnate erano le mie mani e i miei capelli, gli abiti che indossavo. Anche il mio viso grondava acqua. Balzai su dalla poltrona, scagliando impaurito il libro, sorpreso e incredulo. Guardai il soffitto della stanza per vedere se si fosse aperta qualche crepa, forse qualche guasto idraulico al piano superiore: niente, tutto in ordine. Mi assicurai di aver chiuso la finestra ed era chiusa.

Intanto il fenomeno improvvisamente, senza una ragione apparente, era scomparso. Guardai il mio bicchiere di assenzio per controllare quanto ne avessi bevuto, il liquido verdastro era quasi tutto ancora là. Non avevo allucinazioni, quindi e non avevo sognato. Il mio volto e i miei abiti erano davvero fradici di acqua, le mie scarpe zuppe e infangate e con fili di erba e foglie di piante sconosciute attaccate alle suole. Il libro, che nel cadere a terra si era richiuso, era invece stranamente già asciutto. Lo raccolsi con attenzione e curiosità, lo riaprii e subito uno scoscio d’acqua mi investì, trasportandomi nuovamente in quel mondo assurdo. Richiusi il libro con una reazione immediata e mi ritrovai nuovamente a casa, stralunato, a passarmi le mani addosso per asciugarmi, senza riuscire a pensare a nulla e senza riuscire a farmi domande: sapevo già di non avere risposte.

Non raccontai niente a nessuno di quella sera, non volevo passare per pazzo o burlone, ma il ricordo di quanto era accaduto divenne il mio pensiero costante. Rivedevo più volte quella scena e nella mia mente la registrazione era perfetta e sempre uguale e non riuscivo a darmi una spiegazione sensata, naturale, scientifica o semplicemente…umana. Io sapevo però, e intuivo, che almeno qualcosa di quella sera dovesse avere un qualche senso e finalmente scoprii un particolare fondamentale. La chiusura e l’apertura del libro avevano scatenato prima e fermato poi l’evento; evento che quindi presentava la possibilità di un controllo, di un comando di accensione e spegnimento che io potevo gestire. Così cominciai a fare esperimenti.

La sera dopo presi dalla libreria un romanzo a caso, quasi ad occhi chiusi. Guardai la copertina. Era il “Tè nel deserto” di Paul Bowles. Mi sedetti in poltrona e piano piano, dopo qualche sorso di assenzio, cautamente aprii il libro. Subito un caldo vento agitò le pagine e granelli di sabbia cominciarono vorticosamente ad insinuarsi fra le frasi stampate, tra le mie mani, nei miei occhi. Chiusi di scatto il libro ed anche questa volta quel mondo cessò di esistere. Avevo capito dunque! Riaprii il libro, più sicuro di me e mi immersi nella lettura.

Mi trovai così a viaggiare con i personaggi del romanzo, come un compagno di avventura a loro nascosto. Guardavo la loro vita, ma soprattutto osservavo il deserto e i suoi colori. Cercai nella notte l’immagine e il pensiero che avevano dato il titolo originale al libro (Il cielo protettivo): “Una stella nera appare, un punto oscuro nel chiarore del cielo notturno. Luogo oscuro e punto di passaggio verso il riposo. Tendi la mano, trapassa il fine tessuto di questo cielo protettivo, riposa”. Chiusi il libro e tornai di colpo sulla poltrona.

Nella mia testa continuavo a far ruotare, come in un caleidoscopio, tutte le emozioni vissute e le mie mani trattenevano un turbante giallo e blu pieno di granelli di sabbia impalpabili. Non ero più meravigliato, né sorpreso o impaurito. Accettavo quello che poteva essere un dono e lo custodivo, anzi, lo coltivavo nel segreto della mia anima. Infatti, sera dopo sera l’appuntamento con un libro diventò una specie di droga, un’ossessione dalla quale non riuscivo e non volevo liberarmi. Aprivo e chiudevo un libro a mio piacimento ed entravo fisicamente nel suo mondo, e col tempo i dettagli divennero sempre più incisivi, tanta era la mia partecipazione e coinvolgimento anche nella trama narrativa. Anche se io non esistevo, restavo sempre un ospite, uno spettatore occulto. Sceglievo il testo tra i libri più belli che avessi letto e che mi avevano dato emozioni. A volte rileggevo, cercavo frasi che mi erano rimaste nel cuore e nella mente e mi abbandonavo nel gusto di viverle.

Quante volte avevo letto il secondo capitolo del “Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov, immaginando l’atmosfera carica di tensione e di bellezza di quelle righe. Aprii quindi il libro e mi ritrovai così nell’atrio del palazzo di Erode, in piedi, tra Ponzio Pilato e il Cristo. Ero lì, sentivo il profumo dell’olio di rose mescolato a quello del rancio dei soldati, vedevo il sole sorgere a Gerusalemme ed udivo il latrato di Banga, il cane del procuratore della Giudea, unico sollievo al mal di testa dell’egemone. Ho sentito l’urlo della folla aizzata dai sacerdoti, ho visto l’occhio complice di Pilato. Ho visto compiersi il destino di un uomo. Ho visto l’acqua che continua da allora a lavare le mani di chi si inchina con poca attenzione al destino. Quando chiusi il libro mi ritrovai sulla poltrona vestito di una tunica bianca ed un mantello color porpora. Le mie mani odoravano di rose. Un forte mal di testa non mi fece dormire quella notte.

Quando lessi “Il castello dei destini incrociati” di Calvino mi ritrovai nella grande sala da pranzo del castello insieme agli altri convitati a raccontare, nel silenzio delle parole, la mia storia utilizzando le figure dei tarocchi ed intrecciando le carte e i destini con quelli dei protagonisti. Quel vecchio mazzo di tarocchi è ora posato sul tavolino accanto alla mia poltrona.

Altre volte mi confusi nella folla della piazza Jemer el Efna di Marrakesh ed altre ancora ho scoperto le meraviglie dell’Oriente, volando su di un tappeto magico. La mia casa è invasa da sete colorate, incensi, lampade come quella di Aladino.

Altre volte ancora mi ritrovai sulla spiaggia di Troia, vidi le navi achee e i cimieri di bronzo luccicare al sole, navigai sulla nave di Ulisse e udii il canto delle sirene. Ho recitato sul palcoscenico di un teatro greco come parte di un coro e ho portato con me una maschera da tragedia, una freccia e una punta di lancia.

Una sera, affacciato alla finestra, aspettando l’ora che mi ero prefissata per il mio appuntamento con la magia, mi accorsi che il colore del cielo era di un blu cobalto che non avevo mai visto, un blu profondo e limpido che mi apriva la vista su stelle altrimenti nascoste. Salì in me potente il desiderio di andare lassù ed allora ripresi l’antologia di fantascienza. Mi immersi nella lettura di “Blade Runner”. Anche se il libro era in parte diverso dalla scenografia del film omonimo, divenni comunque un androide e, alla fine, mi ritrovai con Rick sul cornicione di quel vecchio e abbandonato alto palazzo. Mi bagnai come lui della pioggia acida, che cadeva fitta sull’incubo della città del futuro. Sentii nelle mie mani il calore di una colomba e insieme a lui rivissi gli struggenti ricordi della sua e della mia vita artificiale: “Io ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi Beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.”

Non sono più tornato, non so più quanto tempo è trascorso da quella sera, non ho più richiuso il libro, e se per caso qualcuno dovesse trovarlo, vi prego: lasciatelo aperto, io voglio restare qui.

Voglio restare ancora qui e non tornare indietro, sono perduto nella contemplazione dell’universo, smarrito consapevolmente nella visione di scontri di galassie, di nascita di stelle, di infiniti spazi e silenzi, di deformazioni del tempo, di universi paralleli, nella bellezza del mistero, nella musica del cosmo.

Ed ogni mia cellula ora fa parte di questo incanto. Voglio restare qui.

Non chiudete il libro, vi scongiuro!