Racconto di Maria D’Urso

(Seconda pubblicazione – 12 marzo 2019)

 

Margherita era quasi entrata in coma, le avevano messo tanti elettrodi all’altezza del cuore da cui partivano fili colorati collegati ad un monitor che, come le lancette di un orologio, scandiva i suoi battiti, “tun-ton”, “tun-ton”, battere e levare come le aveva spiegato una volta la sua insegnante di canto a lezione di solfeggio.

La sua vita scorreva tutta davanti ai suoi occhi come in un film.

Era la disperazione di sua madre perché non voleva mai mangiare, si ammalava sempre e piangeva spesso con le mani in bocca, diluendo le lacrime con la saliva, come a consolare qualcosa di inconsolabile, e si lamentava dondolandosi avanti e indietro con una nenia sempre uguale.

Era piccola, la più piccola, neanche quattro anni, un vestitino di velluto verde e la frangetta e cantava su un palco una canzone dello Zecchino d’Oro, col microfono abbassato al massimo, perché Margherita era nata intonata e a dieci mesi cantava già, ancora prima di camminare. Davanti ai suoi occhi chiusi passò l’immagine di lei, ancora bambina, vestita da contadina siciliana con un tamburello in mano mentre un coro di ragazzi ballava la tarantella e il pubblico applaudiva intenerito.

Margherita trasalì e le sue gambe tremarono sotto le lenzuola quando le apparve una bicicletta minuscola, di quelle che potevi frenare solo con i piedi… si sentiva libera quando pedalava, solo pochi attimi di felicità.

Ora era più grande, molto piú grande, una ragazza magrissima e carina, gli uomini si giravano sempre a guardare il suo sedere, sodo e alto come quello delle donne di colore e nei suoi occhi verdi come il mare, incorniciati da ciglia lunghe e scure, si erano persi in tanti; perché quel contrasto, unito a quello tra i capelli neri e la pelle diafana, era raro come a voler rappresentare tutti i popoli che hanno dominato la Sicilia per secoli.

Ballava su un cubo di una discoteca mostrando le gambe magre e ben tornite sotto una minigonna vertiginosa e si sentiva felice perché quelli erano stati indubbiamente gli anni più belli della sua vita, gli anni dell’università in cui lei e la sua migliore amica bionda Elisa erano padrone del mondo. A quel tempo gli scherzi e le risate sembravano molto più importanti di tutto il resto e anche i problemi più grossi svanivano quando, insieme ad altri amici di facoltà, mettevano in atto le loro famose “zingarate”.

Margherita si rivide mamma, allattava in un angolo della camera da letto, su una sedia a dondolo dall’imbottitura bianca e gialla, le gocce di sudore, l’odore del latte inacidito sul reggiseno, le infinite notti in bianco per ogni poppata, per ogni dentino, per ogni febbrone. Riuscì a risentire sulla pelle il nervosismo, l’esaurimento e l’abissale solitudine in cui era piombata in quel periodo. Rivide la scena ripetuta cento volte di quando, ancora con la pelle liscia e fresca, portava la sua bambina all’asilo, orgogliosa del suo faccino e del suo grembiulino rosa e di come, nonostante tutto, fosse bello essere madre.

Dalla finestra della sua stanza d’ospedale volse lo sguardo alla primavera che, a dispetto del suo dolore, sbocciava piena di colori e profumi, fissò un’aiuola con delle rose gialle e notò che erano identiche a quelle del bouquet del suo matrimonio. Una farfalla arancione e nera si posò su una rosa, come a distoglierla dai suoi pensieri. Ad un tratto bussò Annalisa, era vestita di fucsia, il suo colore preferito e aveva un paio di trecce che la facevano somigliare ad una giovanissima Romina Power. Era perfetta, il suo sorriso sdentato e le sue guance lentigginose le riempirono il cuore di gioia…forse stava morendo, forse era arrivato davvero il suo momento, forse non aveva più senso niente, ma doveva continuare a vivere…per forza, per lei.