Racconto di Donatella Paolucci
(Prima pubblicazione – 18 gennaio 2019)
Sto finendo di restaurare l’ultima tela nel mio laboratorio e non vedo altri lavori all’orizzonte; la situazione è critica.
C’è crisi! Tutti parlano di crisi, tutti hanno paura della crisi, anche coloro che potrebbero evitare di lamentarsi. Alla fine la paura di questa benedetta crisi ha contagiato anche me; continuo a lavorare come se niente fosse, anche se un sottile malessere stanzia in fondo allo stomaco noncurante dei miei tentativi di eliminarlo.
La tela è finita e riconsegnata al proprietario che mi dice che ne ha altre, ma con questa crisi la situazione è difficile e preferisce aspettare che l’economia si riprenda. Cosa rispondere a un milionario che sta pure speculando sulla crisi? Meglio il silenzio perché forse le parole non basterebbero a manifestare il mio disappunto per tanta falsità.
Sono seduta in cucina ancora prima dell’alba, fuori è buio e il mio cervello sta realizzando che non ho nessun lavoro. Il mio stomaco lo ha già realizzato mentre sto bevendo un caffè che cerca di farsi strada tra le varie contrazioni del mio apparato digerente, l’ansia è alle stelle, il mutuo e le bollette sono dall’altra parte del tavolo in attesa di essere pagate. Piano piano riorganizzo le idee.
Il laboratorio, ovvero il mio scantinato non ha costi aggiuntivi, quindi mi dedico a riscrivere il mio curriculum vitae per mandarlo ovunque si possa accedere a un posto di lavoro con studi artistici, qualunque sia non importa se non è attinente al mio campo, per ora l’importante è lavorare poi vedremo quali opportunità si possono presentare, cambiare in meglio è più facile.
Negozi, uffici, centri commerciali oltre a qualunque attività con impostazione artistica, annunci sul giornale, concorsi, via mail o via posta cartacea non risparmio nessuno. Passa poco tempo dall’invio delle lettere e iniziano le chiamate, il primo è un negozio di articoli per la casa. Come ci si presenta a un colloquio? Dopo anni di laboratorio con i jeans sporchi di colore devo rivedere le mie abitudini dell’abbigliamento da lavoro. Rovescio l’intero armadio per decidere cosa indossare pensando che mi sarei posta meno problemi se fossi dovuta andare a cena col principe azzurro.
Decido per un abito sobrio, elegante ma non vistoso, studio gli accessori delicati ma con classe per fare una buona impressione, le scarpe basse perché so che l’esaminatore, nel caso fosse più basso di me, potrebbe non gradire il dislivello dei tacchi. Mi preparo, esco di casa e quando arrivo nella via dove si trova l’attività commerciale riconosco il negozio anche per la fila di persone che attendono come me di fare il colloquio.
Aspetto con pazienza che arrivi il mio turno, una commessa esce a scusarsi per l’inconveniente dicendo che essendosi divise il lavoro, le segretarie, hanno dato gli appuntamenti senza interagire tra loro, convocando più persone alla stessa ora. Penso che sia una presa in giro, invece capisco che è vero. Le lamentele si scatenano, ma ormai sono qui e decido di non cedere al cattivo umore e restare fuori dal coro divertendomi ad ascoltare le più svariate e fantasiose imprecazioni. Intanto osservo la fauna di disoccupati intorno a me e noto come i look sono diversificati, dalla casalinga rassicurante in questo contesto commerciale, a qualcuna che sembra aver appena abbandonato la sua postazione notturna, qualche padre disperato, e qualcuna che come me ha cercato di apparire curata ma normale. Arriva il mio turno, mi aspetto di dover discutere una tesi, invece mi chiedono solo conferma dei dati personali, della disponibilità all’orario, qualche informazione generica sul lavoro da svolgere e mi congedano con tanta gentilezza e un “le faremo sapere” che non promette niente di buono.
“Le faremo sapere” è un ritornello che ascolto spesso al posto del no, ed imparo a digerirlo.
Dopo vari colloqui personali vengo convocata da un centro commerciale che fa una selezione attraverso dei test che sembrano presi dalla settimana enigmistica. Noi partecipanti sembriamo carne al macello, ma non demordo e cerco di svolgere il mio compito in classe. Ad ogni colloquio osservo anche gli esaminatori: sembrano tutti fatti con lo stampino, spersonalizzati dal loro ruolo, molto educati, attenti al linguaggio del corpo, perfettamente spettinati dal parrucchiere, con abiti casual per “sembrare dei nostri” come suggeriscono i manuali di marketing che questi signori non hanno solo letto, ne sono imbevuti come bustine da tè dentro una teiera. globalizzati nei neuroni.
Il tempo passa e sono seduta in cucina con davanti l’ennesimo bando di partecipazione a una selezione per un supermercato. Il mio gatto arriva sul tavolo, si siede sul giornale e inizia una lamentazione in piena regola, quando poi cerco di scansarlo la protesta si fa ancora più vivace.
Mi vorrà dire qualcosa, oppure era solo un bisogno di attenzione, mah.
Eccomi qui in attesa, ormai non sono né elegante, né agitata, solo stanca di non risposte. In quasi tutti i supermercati che si rispettino anche gli uffici sono ricavati da ambienti commerciali, come se anche gli impiegati fossero merce da magazzino. Rispettando il copione dei colloqui mi presento con un po’di anticipo e mi metto in paziente attesa nella zona commerciale. Sono davanti ai prodotti di pane confezionato e osservo i prezzi per passare il tempo: pan carré € 1.20, grissini in offerta € 0.90, pene tostato € 0.85, però…non sono cari in questo centro alimentare, specie il pa… ma cosa c’è scritto? Ma tu guarda che errore, oddio poveri uomini. I pensieri più assurdi si fanno strada sbaragliando quelli di lavoro: chissà che dolore se fosse vero, è tremendo solo leggerlo; ecco come è nato l’hot dog, chissà se farà anche la pipì tostata e scura come il caffè…e poi cosa se ne può fare un uomo di un pene tostato…
Mentre penso queste assurdità vedo anche dei clienti leggere, sorridere, scuotere la testa ma tacere. Poi arriva una signora anziana che si lascia andare a uno sfogo fantastico.
“Pene tostato? Ussignur cosa devo leggere alla mia età. Eh già, è proprio un errore bizzarro. Eh già, quando neanche il viagra funziona più a niente se non per rinfrescare l’alito non resta che tostarlo. Eh già caro il mio Aldino, lo so bene io che dopo gli ottanta se non arriva Gesù a tirarlo fuori dal sepolcro come Lazzaro è tardi anche per tostarlo. Eh già…” Si allontana continuando la sua lezione di sessuologia della terza età ma non sento più cosa dice, peccato. Non riesco a trattenermi dalle risate e quel momento di ilarità sembra avere la magia di un campanello che mi sveglia da uno strano torpore.
Ma cosa ci faccio qui? Non perché reputi svilente il lavoro di commessa nei centri commerciali, anzi ammiro chi lo svolge resistendo ai superiori e alle orde barbariche della clientela, semplicemente non è il mio posto. Cercare un posto di lavoro è un lavoro spesso umiliante, dove molti fanno di tutto per farci sentire sbagliati e sminuirci e così procedendo quasi ci impegniamo a dimenticare le nostre qualità arrivando a considerare noi stessi come l’ultima spiaggia. Osservando quegli esaminatori non mi rendevo conto che il loro lavoro era quello di vedere quanto potessero spersonalizzarmi, come d’altronde sono stati spersonalizzati loro anche se ricoprono posizioni di rilievo. La paura del salto nel vuoto è grande ma quando, purtroppo o per fortuna, non troviamo il “posto fisso” allora siamo costretti a sviluppare la nostra creatività, anche lavorativa e quella che sembra essere l’ultima risorsa può diventare la nostra punta di diamante.
Presa dall’ansia della crisi ho dimenticato me stessa e le mie potenzialità considerandole non commerciali e la creatività come un accessorio in più che abbellisce la vita ma non produce.
Quella che è la più potente forza vitale l’ho ridotta io stessa a un fastidio, lamentandomi anche da buona genovese.
Svolgo comunque il mio colloquio e poi esco nella tiepida giornata di sole primaverile con lo stomaco rilassato. L’ultima risorsa sono io che guardo a quello che so fare e decido di metterlo in pratica. Dunque, vediamo: arte, arte terapia e cucina sono gli ingredienti per qualcosa di originale da mettere in pratica, se il restauro si è fermato io mi rialzo reinventandomi.
Torno a casa, mi siedo in cucina, è presto per pranzare, ma un caffè ci sta benissimo. Stringo la tazza tra le mani quasi a cercare conforto nel calore che emana la porcellana e vedo il gatto in alto seduto sullo scaffale di libreria dedicato alla cucina, il sole illumina il suo pelo argenteo e i libri. Spero che sia un segnale.
Passo la giornata a rilassarmi per iniziare un nuovo ciclo di vita con energia.
Quando arriva l’ora di preparare la cena accendo la tv e ascolto il tg: economia ferma, disoccupazione e tante altre brutte notizie. Mi fermo e penso a come io sono specchio di questa mentalità nazionale e quindi io per prima devo reagire e cominciare a valutare ciò che so fare sperando che ogni persona prenda consapevolezza delle proprie risorse.
Se ci fosse un’educazione dedicata a valorizzare i talenti di ogni essere umano, questa nazione si renderebbe conto che ciò che molte persone danno per scontato, o addirittura svalutano solo perché non è situato in area marketing, costituisce l’eccellenza, il vero patrimonio di un paese, non ultima risorsa ma la prima potenzialità per risolvere la famosa crisi.
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