Racconto di Loredano Cafaro

(Seconda pubblicazione)

 

Marco De Stefani. Specialista supply chain in una importante azienda metalmeccanica dell’hinterland torinese. Sposato con Paola, amore dei tempi dell’università. Due figli: Pietro e Sofia, nove e sette anni. Null’altro da dichiarare, se non che aveva di nuovo fatto tardi. La solita emergenza in ufficio. Emergenza: un termine il cui significato letterale, almeno nella ditta in cui lavorava, si era sostanzialmente distaccato da quello universalmente condiviso. Chissà, prima o poi forse avrebbero adeguato anche i dizionari, inserendo una definizione specifica: “termine utilizzato in ambienti lavorativi diretti da persone prive di una vita, per giustificare a se stessi e ai propri subordinati il protrarsi del lavoro ben oltre l’orario prestabilito; per estensione, equiparazione di una qualsiasi pratica lavorativa – meglio ancora se di scarso valore aggiunto – al salvataggio di vite umane”.

Marco parcheggiò l’auto poco distante dal portone di casa, lungo la via illuminata dalla luce giallastra dei vecchi lampioni, spense luci e motore e restò immobile per un momento. Rivolse lo sguardo alle lancette dell’orologio che portava al polso: 23:27. Un’altra giornata senza Paola; senza Pietro, senza Sofia. Ripensò a tutte le sere in cui aveva fatto tardi e a tutti i fine settimana in cui aveva dovuto lavorare. Aveva provato a spiegarlo a Paola: non era facile uscire dal tunnel. Probabilmente l’unica soluzione sarebbe stata cercarsi un altro lavoro, ma ormai non era più un ragazzino e non c’era esattamente la fila ad aspettarlo, là fuori.

Non sapeva se ad aver preso il sopravvento fosse stata la stanchezza o la malinconia, ma fu sopraffatto da un senso di vertigine, mentre una morsa gli stringeva il petto e il respiro sembrò venir meno.

«Voglio solo andare a letto» sussurrò a fatica, appoggiando la testa all’indietro. «È venerdì: voglio soltanto dormire, svegliarmi senza questi pensieri e passare il weekend con Paola e i piccoli».

Chiuse gli occhi e chinò la testa in avanti fino ad appoggiarla contro il volante. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, quando udì la voce alle sue spalle.

«È ora di andare».

Marco sobbalzò, si sedette di traverso con la schiena contro lo sportello e guardò verso il sedile posteriore. Nell’angolo opposto a lui c’era una bambina. Sei o sette anni, forse otto; capelli neri e un vestito bianco a fiori, che alla fioca luce dei lampioni sembravano rossi.

«Come hai fatto a salire?» domandò Marco, controllando con lo sguardo che le portiere fossero ancora bloccate.

La bambina sorrise. «Non ho bisogno di porte; o di inviti».

Marco ignorò il brivido lungo la schiena. «Chi sei?» domandò ancora.

«Il mio nome non ti direbbe nulla. Né ha importanza, d’altronde. È ora di andare».

«Cosa vuol dire che è ora di andare?» Istintivamente Marco sollevò il polso e osservò le lancette dell’orologio: 23:27. «Andare dove?» chiese, temendo quasi la risposta che avrebbe potuto ricevere. La bambina sorrise.

Marco ruotò su se stesso e sprofondò nel sedile, dandole le spalle. Fissò di nuovo l’orologio: 23:27.

«Chi sei?» incalzò con scarsa convinzione, senza voltarsi.

«Sei un po’ ripetitivo, sai? Prenditi un attimo, non ho fretta. Io sono ovunque in qualsiasi momento».

Marco fissò il nulla oltre il parabrezza. Poi lo sguardo tornò all’orologio: ancora le 23:27.

«Puoi continuare a guardarlo finché vuoi» continuò la bambina. «L’ora non cambierà».

«Sei solo una bambina…» sussurrò Marco, come a voler rassicurare se stesso.

«Mi starai mica giudicando dal mio aspetto? Non mi sembravi il tipo. Saresti più a tuo agio se indossassi una veste e un cappuccio neri? Magari ti farebbe piacere anche una falce. A puri fini coreografici, tranquillo».

«Sì, va bene, bello scherzo. Stai riprendendo col telefono? C’è qualcun altro qua fuori?» sbottò lui guardandosi attorno. La bambina levò gli occhi al cielo. «Basta, questo gioco è durato anche troppo!» inveì Marco, aprendo lo sportello e scendendo dalla macchina. «E fuori anche tu, forza!» intimò voltandosi verso l’auto. Che aveva lo sportello ancora chiuso. Che, attraverso il finestrino del lato guida, lasciava intravedere la figura di un uomo accasciato sul volante.

«Non è facile da accettare, lo so» risuonò alle sue spalle la voce della bambina. «È per questo che sono qui».

Marco non ebbe alcuna reazione. Continuò semplicemente a contemplare se stesso oltre il finestrino.

«Come è successo?» mormorò, dopo quello che poteva essere un istante così come una vita intera.

«Non saprei, non sono un medico. Ti sei accasciato sul volante e sei rimasto lì. Altro proprio non saprei dirti».

«Ma come non lo sai? Se non lo sai tu, chi accidenti dovrebbe saperlo?».

«Te l’ho già detto, non sono un medico. E per rispondere anche alla tua prossima domanda: non sono io che scelgo. Anche se non nego che non mi dispiacerebbe, a volte. Io accompagno soltanto».

«Accompagni dove?».

«Lo scoprirai una volta che saremo arrivati».

Marco restò in silenzio, continuando immobile a fissare se stesso riverso sul volante.

«Sei preoccupato?» domandò la bambina.

«No. Sono amareggiato. Se si può riassumere una vita in una parola. Io e Paola abbiamo litigato, stasera, quando le ho detto che avrei fatto di nuovo tardi; ha chiuso la telefonata senza neppure salutarmi. E non ho visto Pietro e Sofia per tutto il giorno. Sono uscito quando ancora dormivano e non sono arrivato a casa in tempo neppure per metterli a letto. Sono amareggiato e arrabbiato, perché ho trascorso la mia ultima sera in ufficio e non con loro. Come quasi tutte le altre sere, d’altronde. Sarei dovuto uscire, sarei dovuto venire via!». La bambina ascoltava in silenzio. «Non può essere tutto finito» continuò Marco. «Non così. Ci sono così tante cose che pensavo, prima o poi, avrei trovato il tempo di fare».

«Ti dispiace per il tempo che hai sottratto a te stesso?».

«No. Mi dispiace per il tempo che non ho dedicato a loro». Marco rivolse gli occhi al suolo. «Posso almeno salire a salutarli?» chiese poi, voltandosi verso casa.

«Mi dispiace, non è concesso. E in ogni caso non ti sentirebbero».

«Ma tutte quelle cose che si vedono nei film? Parlare loro mentre dormono, sfiorarli in una carezza?».

«Sciocchezze: non è così che funziona. Il tuo tempo qui è finito, mi dispiace».

«Non capisci. Io non voglio rivederli un’ultima volta, io devo rivederli un’ultima volta».

«Non sei granché originale. Dare un ultimo bacio a mia moglie, abbracciare ancora una volta i miei figli…».

«Ma vaffanculo!».

«Non prendertela con me, non sono io quello che ha sprecato il suo tempo».

«Ma io pensavo che il tempo sarei riuscito a trovarlo, prima o poi, un giorno».

«Lo pensano tutti. Solo che quel giorno era ieri. Mi dispiace, ma un domani non esiste più».

La bambina porse la mano a Marco. «Vieni con me» disse.

Marco si voltò di nuovo verso casa. Poi di nuovo verso la bambina. Poi di nuovo verso casa. Non ebbe bisogno di aprire portoni o salire scale, si ritrovò direttamente in camera.

«Amore mio, mi dispiace» bisbigliò alla volta di Paola, distesa nel letto, sfiorandole una guancia con una mano che non percepì, né trasmise, nulla.

«Non può sentirti, te l’ho detto. Tantomeno puoi toccarla» udì la voce della bambina dietro di sé.

Un battito di ciglia e Marco fu nella camera di Pietro e Sofia. Si inginocchiò tra i due letti. «Sono a casa, piccoli miei. Papà è a casa» sussurrò, senza neppure sforzarsi di trattenere le lacrime.

«È inutile, ti stai soltanto facendo del male. È per questo che non è concesso».

Il rintocco di una campana si fece udire in lontananza.

Don…

«Vieni con me» ribadì la bambina. «Dobbiamo proprio andare, adesso».

Marco si sollevò lentamente e posò un bacio intangibile sulla fronte prima di Pietro e poi di Sofia.

«Mi dispiace, cuccioli. Mi dispiace» mormorò tra i singhiozzi.

Poi si voltò verso la bambina. Prese la mano che lei gli offriva e subito furono sul marciapiede, accanto alla macchina. Un ultimo sguardo a se stesso oltre il finestrino e si incamminarono lentamente, mentre il rintocco della campana si faceva sempre più vicino.

Don…

«Allora, dove stiamo andando?» domandò Marco, cercando di riacquistare un barlume di autocontrollo. «Puoi dirmelo?».

«Te l’ho detto: non lo so. Ma c’è forse qualcuno che lo sa, in fondo?».

Don…

«È diverso per ognuno» continuò la bambina. Poi mosse ancora le labbra, ma i rintocchi della campana erano ormai assordanti e Marco non riuscì a distinguere le parole.

«Cosa?» fece Marco, coprendosi allo stesso tempo le orecchie con le mani. «Dove stiamo andando?» gridò, mentre i rintocchi della campana sovrastavano ogni suono e il marciapiede veniva scosso da un tremito. «Dove mi stai portando?».

Don…

Don…

Don…

Marco aprì gli occhi e sollevò la testa dal volante. Sul sedile del passeggero, il telefono aziendale vibrava e contemporaneamente emetteva un suono campionato da rintocchi di campane, suoneria che Marco a suo tempo aveva trovato molto divertente associare al numero della moglie. La luce del sole lo accecò per un istante.

Don…

La suoneria, il cellulare: era Paola. Marco si voltò di scatto a gioire del vuoto sul sedile posteriore, poi salutò l’alba attraverso il parabrezza. Sollevò il polso e guardò l’orologio: 6:53. E scoppiò a ridere. E rise come mai ricordava di aver riso.

«Sto arrivando, amore mio! Pietro, Sofia, papà sta arrivando!».

Don…

«Sto arrivando, sono sotto casa!» disse Marco, rispondendo finalmente al telefono. «Mi sono addormentato in macchina dopo aver parcheggiato. Arrivo subito e ti racconto tutto!».

Poi scese dall’auto e corse più veloce che poteva, continuando a ridere, senza neppure curarsi di chiudere lo sportello. Aprì il portone d’ingresso, lo oltrepassò e lasciò che sbattesse alle sue spalle, senza voltarsi indietro. Non si accorse affatto della bambina che, sporgendosi dall’angolo di un edificio vicino, lo aveva intanto osservato di nascosto. Una bambina sui sei o sette anni, forse otto; capelli neri e un vestito bianco a fiori, che nella luce dell’alba brillavano di un rosso sgargiante.

«Siamo arrivati» mormorò lei in un sorriso. Poi corse via saltellando.