Racconto di Rosaria Taliercio
(Prima pubblicazione – 18 febbraio 2019)
Jack morì dopo aver molto sofferto. Quelle parole esplosero nei pensieri di Lia mentre, entrando in cucina alle otto, vide sua madre già dietro ai fornelli, con l’immancabile TV accesa. All’improvviso si ritrovava nella sua cameretta di dodicenne a piangere calde lacrime su quel libro che le avevano imposto a scuola, la triste storia del cane Jack e degli umani a cui aveva disperatamente cercato di appartenere ma da cui aveva ricevuto solo crudeltà e, alla fine, una condanna a morte. Perché le tornava in mente proprio in quel momento, in cucina? Forse la risposta era nell’ennesima violenta sfuriata di suo padre, la sera prima. Il padre in fondo non era, per lei e sua madre, come gli aguzzini del povero Jack? E anche loro nonostante tutto non sembravano poter fare a meno di appartenergli.
Salutò la madre e corse via senza fare colazione. Il suo corpo, alto e di una magrezza eccessiva, sembrava sul punto di andare in mille pezzi ad ogni passo mentre scendeva i larghi gradini del palazzo di Via Puccini al Vomero, in cui abitava da quando era nata.
Frequentava, senza troppo interesse, il terzo anno dell’Istituto Magistrale ma quel giorno la sua meta era un’altra e decise che sarebbe andata a piedi. All’angolo tra Via Toledo e Vico Figurelle la sua attenzione fu attratta dal profumo dei taralli che un vecchietto grassoccio vendeva in una carrozzina. Si avvicinò e dopo averli comprati gli chiese “Ci siete anche domani?” “Signurì i oramaie so’ viecchie e malato, oggi ce stò e dimane chi ò sape”, rispose lui.
Continuò a camminare, con passo veloce, fino a quando sentì dei guaiti sommessi arrivare da un vicolo stretto e semibuio. Sorrise, finalmente era arrivata. In un angolo, rannicchiata in un’ampia fessura di un edificio ammuffito, c’era una vecchia cagna zoppa. Tozza e di razza indefinibile, la cagnetta zoppicò felice verso di lei; Lia tirò fuori dalla borsa una scatola di paté e, mentre la osservava mangiare avidamente, ripensò a quando l’aveva trovata durante uno dei suoi vagabondaggi solitari e di come le fosse dispiaciuto non poter far niente per lei. Ma quella mattina in cucina aveva deciso che l’avrebbe salvata, lei non avrebbe fatto la fine di Jack. Bisognava però convincere suo padre.
Quando tornò a casa la madre stava guardando Pronto…Raffaella? cercando anche lei di indovinare quanti fagioli ci fossero nel barattolo della Carrà. Andò nella sua camera dove da poco aveva appeso un poster degli idoli del momento, i Duran Duran, non perché le piacessero particolarmente ma per sentirsi in qualche modo parte di un fenomeno collettivo. Si stese sul letto e affondò il volto affilato nel cuscino, con un nervoso gesto della mano si sciolse i lunghi capelli rossi, che portava sempre legati con un elastico. Verso sera sentì che suo padre era tornato e si preparò ad affrontarlo. Guardò il sacchetto dei taralli accartocciato sul comodino e sentì ancora quel grido che le saliva dallo stomaco; non tentò di opporsi e corse in bagno a vomitare. Le lunghe sedute dallo psicologo, da cui prima cercava il miracolo della salvezza, ora le erano diventate insopportabili. Era iniziato tutto due anni prima, ma la madre per mesi non aveva voluto vedere la drammatica magrezza di quella figlia che a tavola alternava abbuffate estreme a digiuni assoluti. Poi un’amica le aveva detto a bruciapelo “Devi portare Lia da un medico!” e lei, schiaffeggiata da quelle parole, era corsa a casa e aveva guardato Lia, le ossa sporgenti, i capelli sottili, i grandi occhi affossati in profonde occhiaie nere. Disperata, aveva cercato conforto nel marito. “Sciocchezze!” aveva risposto lui, insofferente. I loro sguardi si erano incrociati e nei suoi occhi scuri e freddi lei aveva visto riflessa solo una nemica da abbattere, una mosca da schiacciare.
Carlo Ruggiero era proprietario di una grande gioielleria in Piazza Vanvitelli, uomo duro e spregiudicato, si era stancato di pagare il pizzo ai clan e aveva trovato molto più vantaggioso passare dall’altra parte. Sua moglie lo aveva scoperto ascoltando, per caso, una telefonata con uno dei suoi “soci”, come li chiamava lui. Era seguita una terribile lite da cui lei era uscita ancora una volta sconfitta e da allora non ne avevano più parlato.
“Papà devo chiederti una cosa, ho trovato una cagnolina randagia, non è al sicuro dove si trova, posso portarla qui?” mormorò Lia, quasi tremando, mentre si avvicinava a suo padre.
“Assolutamente no, lo sai che non voglio bestie in casa!”
“Ma è tanto buona ed è vecchia, non ti accorgerai nemmeno che c’è, morirà se la lascio lì”, lo implorò.
“Che crepi domani stesso ma qui non la porti!” urlò lui, uscendo furioso dalla stanza.
Lia restò immobile per parecchi minuti e poi si avviò alla finestra della sua stanza e la aprì, aveva deciso, ora si sentiva finalmente libera da quel padrone crudele da cui in sedici anni non aveva mai avuto un gesto d’affetto o una parola gentile.
“Amici ascoltatori a nome di Canale 5 vi do il benvenuto a Superflash!” risuonava nell’elegante salotto della signora Ruggiero, quasi a coprire le urla sgomente che salivano dalla strada.
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