Racconto di Silvana Esposito

(Seconda pubblicazione – 4 maggio 2021)

 

 

 

Quante volte l’ho ucciso? Mille volte. Nei sogni, nella testa, nel cuore. Eppure tutte le volte è resuscitato e si è impossessato di me, del mio presente, di tutto il tempo vissuto con lui. E mi divora. Come un’ossessione.

Da quando se n’è andato, da quando mi ha lasciata per un’altra, lui occupa i miei pensieri. Vorrei cancellarlo. Ucciderlo, ma riemerge sempre: mai nello stesso modo, sempre diverso e sempre uguale. Come l’alba, come il tramonto. E ti chiedi se anche questo dolore è scritto nell’eternità.

Un dolore sottile, che penetra come uno spillo, e poi si espande in un riverbero costante, continuo, fino al cuore e affonda nelle ossa, nella testa tanto da impedirti di pensare. Questa è la disperazione. E’ l’inferno.

Mi guardo intorno: c’è una scrivania piena di fogli, di libri, di vecchie scartoffie.

Una scrivania in disordine dove penne e matite smozzicate sono sparse alla rinfusa sopra fogli stazzonati, letti e riletti senza attenzione: li riguardo e mi appaiono nuovi.

I manifesti alle pareti sono ingialliti e richiamano un tempo di entusiasmi ideologici che sono morti e sepolti, come altari di una vita passata. Mi dico che devo sostituirli e subito dopo mi chiedo “Con che cosa?” Nulla rappresenta meglio la mia vita attuale di quelle figure che inneggiano a una rivoluzione, che forse pure c’è stata dentro di me. Libri, libri dappertutto. Li ho letti tutti. E penso alle parole che sono scivolate via nella mia mente, lasciando sempre una sensazione di incompletezza.

Sempre qualcosa o qualcuno che rimanda ad altro, come cerchi concentrici che allargano a dismisura ciò che vorresti conoscere. Come interrogativi senza fine che si originano da quel “perché” iniziale nel quale trova la sua genesi la ricerca famelica di risposte. Senza metodo, mi dico … la rigida impostazione di un “metodo” porta inevitabilmente alla FEDE … che io (purtroppo) non ho.

Ogni oggetto materializza quel sogno passato. Quella illusione incarnata in un uomo. Qualche fotografia incorniciata. Immagini che non sono più. Occhi e sorrisi che parlano di momenti. Appunto momenti. Non hanno senso. Sono momenti scivolati via nella scansione del tempo. C’è una sorta di crudeltà in tutto questo.

Dovrò togliere le foto. Seppellirle in un cassetto. Meglio non vedere.

Quale migliore tomba della memoria? Non se ne ha coscienza fino a quando non la rivisiti. E la rivisiti solo quando i ricordi diventano tali. E più passa il tempo più grande diventa il sepolcro. Un proprio sepolcro personale, intimo, dove la verità della nostra natura trova il suo recesso, la sua esaltazione, la sua giustificazione. Senza requiem. Una tomba che custodisce una vita lontana da occhi indiscreti.

Squilla il telefono.

Uffa, strappata ancora una volta dal filo dei pensieri.

Infastidita. La realtà non ha senso. La voce dell’amica arriva calda, vuole apparire rassicurante: “Ciao, come stai? Tutto bene?”

“Sì, grazie, tutto bene!” Ecco la risposta formale, educata.

In verità non avrei voluto rispondere, ma sapevo che il mio silenzio avrebbe generato preoccupazione. Tutte le persone che mi vogliono bene sono vigili e mi stanno con il fiato sul collo, vogliono sapere dove sono, cosa faccio. Lo so. Per questo rispondo.

Cinque minuti di formalità, per riavere poi qualche momento in cui sprofondare nei miei pensieri, nei miei ricordi, nelle mie illusioni, nella mia … tomba.

Li rassicuro, rassicuro l’amica di turno che veglia su di me. “Stavo cercando di mettere un po’ di ordine” dico cercando un tono adeguato.

“Hai visto che bella giornata? C’è un’aria primaverile, volevo proporti una passeggiata. Dai, usciamo! Lascia tutto lì, andiamo a fare due passi in riva al mare!” Ingoio a vuoto e faccio fatica a trovare le parole per un diniego. Come sempre la perentorietà altrui mi costringe ad assentire, ma questa volta con una titubanza evidente: strappata ai miei pensieri e risucchiata nella realtà. E’ una palese invadenza, una violenza.

L’amica insiste proponendomi gaudenti percorsi e vuoti chiacchiericci fino a dirmi che ha bisogno di me e della mia compagnia, toccando così le corde altruistiche del mio essere.

“Va bene” dico poco convinta.

“Passo a prenderti “. Mi dice .

“Dammi il tempo di vestirmi” Rispondo. Sono ancora in pigiama.

E’ vero l’aria è tiepida e frizzante. E c’è una luce particolare a quest’ora del mattino. Ho indossato tuta e scarpe da ginnastica e respiro profondamente quest’aria pulita dal vento dei giorni scorsi.

Ha ragione Maria, una passeggiata salutare per ritemprare il fisico e il morale. Sembra che si sia allentata quell’ossessione e riesco a ristabilire una dimensione dove la realtà del presente trova conferma nelle percezioni fisiche.

Ci sono.

Esisto. Con i miei sensi.

Avverto il profumo dei tigli che ombreggiano un poco il viale e il sottile piacere che provo lo avverto come nuovo.

Un accenno di benessere che subito si trasforma in dolore sordo e cupo, con quel bisogno inespresso di annullare qualunque sensazione piacevole, perché innaturale con questa ferita aperta.

Eppure dovrò liberarmi dall’ossessione.

Arriva Maria dal fondo della strada. La riconosco dall’andatura un po’ lenta e pesante, malgrado il massimo dell’energia che impiega a ogni passo. Mi sventola un sorriso da lontano con un’aria di soddisfazione che le inonda il viso, poi quando si avvicina mi sussurra vittoriosa “Sono riuscita a stanarti!”  Abbasso gli occhi per non far trapelare quel senso di fastidio che fa capolino. Detesto chi crede di poter organizzare la mia vita e so che questa mia arrendevolezza può trasformarsi bruscamente, senza un’apparente ragione, in asprezza e inaccessibilità. E’ solo per affetto che le concedo di entrare nella mia penosa quotidianità lasciandola nella convinzione di fare qualcosa per me.

Già, solo per affetto.

Così come per tanti anni ho concesso a lui.

Sì. Solo per affetto, per amore.

Così come da quando son nata. Non volevo dispiacere a mia madre, a mio padre, volevo meritarmi il loro amore ed ero docile, buona.

Cominciamo a camminare in direzione della spiaggia. Maria mi dice che aveva proprio bisogno di sgranchire le gambe, di uscire dalla routine fatta di casa e lavoro. Oggi è domenica e incontriamo frotte di conoscenti e questo mi disturba.

Lei saluta tutti amabilmente, con qualcuno si ferma a scambiare convenevoli.

Comincio a irritarmi e le chiedo di cambiare percorso.

Finalmente una stradina deserta e assolata che percorriamo con passo deciso per arrivare al mare. Si intravvede la spiaggia e una piccola striscia di un blu intenso.

Respiro profondamente.

Riecheggia il ricordo nella luce e nei colori intensi di un tempo lontano. Il vociare dei bambini: un gruppo nutrito che già pregustava il piacere della libertà denudata eIl piacere di sentire l’aria e l’acqua sulla pelle, e il calore dei raggi solari e le chiacchiere senza fine di noi giovani madri, con le borse piene di merende golose …

Altri tempi, altri suoni. Un ritmo diverso, lento ora.

Lo sguardo indugia sul panorama come se fosse una scoperta nuova, diversa. Eppure nulla è cambiato. Eppure non è più come prima.

Maria parla a ruota libera senza freni.

Cerca in tutti i modi di coinvolgermi nella conversazione.

Rispondo a monosillabi. E mi pento di aver accettato l’invito.

Non sopporto questa invadenza nei pensieri.

La conversazione non ha nulla di interessante e mi distoglie dai ricordi, dalle immagini che via via vengono richiamate da qualcosa di oscuro.

Guardo questa buffa figura che mi sta accanto. E’ piatta e larga. Non riesco a vederla in modo tridimensionale. Come un’ombra mi cammina accanto. Solo la voce un po’ stridula e ansimante mi arriva.

Ha come l’urgenza di dire, sparando a raffica parole e giudizi.

Scendiamo in spiaggia e mi lascio scivolare sulla sabbia di fronte all’immensa massa d’acqua azzurra e al cielo terso.

Vorrei annegare i ricordi fra le onde spumose o disperderli nel gioco dei nembi inseguiti dal vento.

Ecco! Soltanto ora, solo in questo preciso istante, mentre guardo il cielo, mi accorgo che la verità non sta sempre in ciò che appare.

La verità è un’altra.

Mi colpisce e ferisce il pensiero della nuova scoperta banale e scontata: è il vento che sospinge le nuvole!

In un attimo prendo coscienza della menzogna che si cela ai miei occhi.

E vorrei lasciarmi andare alla rielaborazione dei ricordi, nei quali troppo spesso la leggerezza del mio vivere è stato sospinto dalla determinazione impetuosa degli eventi.

Ma io dove sono stata? Mi sono lasciata trasportare convinta di essere inseguita dagli aliti carezzevoli dell’amore. Poi improvvisa la burrasca. La forza di una passione che come un uragano spazza il cielo, la mia vita. Ecco che volteggio senza meta ancora in balìa del vento.

Eppur io, come una nuvola, credevo di correre con slancio, senza la spinta della forza scatenata da brusche correnti invece … ero come una nuvola assorta, condotta per mano. Improvvisamente ha detto “E’ finito l’amore”. Eccomi nell’occhio del ciclone.

Pietrificata nel turbinio delle emozioni prima, scaraventata nel vortice del dolore, poi.

Maria si siede accanto a me e il suo cicaleggio costringe i miei pensieri a un’apnea.

È una tortura il fluire delle sue inutili parole. Continua, a dispetto del mio silenzio, sgranando gli occhi: le labbra sottili strette in una smorfia di rancore diventano taglienti e prosegue imperterrita il suo lamento in un vittimismo senza fine, imprecando sulla sua vita piena di banalità. Una vita “normale”, con le “normali” difficoltà, intrisa dai pettegolezzi di paese. La odio.

Sto vivendo nell’insofferenza e nella diffidenza più totale nei confronti del genere umano.

Sto cercando di oppormi al desiderio di chiudermi nell’eremo della mia solitudine dove ascoltare il fluire, a tratti burrascoso e disperato, a tratti lento e malinconico, dei miei pensieri.

Mi chiedo che senso ha la sua vita.

Mi chiedo che senso ha la mia.

La guardo come si guarda un insetto fastidioso e mi balena in un attimo il desiderio omicida di schiacciarla e di renderla inoffensiva, con le sue inutili chiacchiere, con quel ronzio penetrante della sua voce che gorgoglia alla ricerca di aria: sfiata e accumula ossigeno in uno spasmo che le fa sollevare il petto in modo repentino.

Lei mi violenta. Lei ferisce il mio bisogno di quiete.

La elimino.

La elimino dalla mia visuale. E sposto lo sguardo sull’arenile

La elimino come suono, perché avverto come una brutalità offensiva nella sua voce.

La sabbia è liscia e dorata.

Mi alzo.

Poso ancora una volta i miei occhi su di lei e la vedo inutile, amorfa.

“Vado a casa” … le dico. Rapidamente mi allontano.

Anche le nuvole si disperdono.