Racconto di Filippo Rigli

(Seconda pubblicazione – 27 aprile 2021)

 

 

 

Le comitive di turisti, quando urlavano nei vicoli dietro la piazza deserta sembravano congreghe di streghe. Passata la mezzanotte, in bassa stagione, la piazza si svuotava, spesso calava la nebbia. Rimanevano solo le insegne degli alberghi, illuminate di luce fioca, tra la chiesa e il museo. Allora le sentivi passare, senza vederle, perché sembravano non arrivare mai nella piazza, come se fosse circondata da una barriera insormontabile. Partiva come una specie di brusio, qualcosa che sembrava lontanissimo, appena portato dal vento. Il brusio saliva, e diventava un vociare indistinto che rimbalzava in una eco minacciosa tra i vicoli e sembrava cingere d’assedio la piazza. Era allora che lui immaginava che di lì a poco sarebbe sciamata una congrega cantilenante di streghe, coperte di stracci, torce alla mano, che in un sabba furioso avrebbe appiccato roghi davanti alla chiesa e al museo, e poi trascinato fuori i portieri di notte dopo aver sfondato i portoni degli alberghi, e farli a pezzi tra urla e invocazioni a Satana. Un po’ ci sperava, nella noia delle lunghe nottate dietro al bancone, o appena fuori dalla porta a vetri a fumare sigarette rollate. Spesso le sue visioni viravano in direzioni di pornografia cruenta, con il sabba che si trasformava in un’orgia rituale, e allora le streghe erano particolarmente avvenenti, e prima di fare a pezzi i poveri impiegati li obbligavano a soddisfare le giovani e poco vestite serve del demonio. Ma queste fantasie partivano sempre dopo che il vociare si era spento e lui era rientrato al bancone. Perché finché il rumore sinistro non cessava gli metteva i brividi e nient’altro. Fu una notte di novembre, cominciava a fare freddo, i pochi turisti rimasti erano già scomparsi, la nebbia poco a poco prendeva possesso della piazza. I pochi clienti, tutte facce note giunte in città per lavoro, erano rientrati da un pezzo. Impostò la chiusura fiscale nel programma di gestione, e questo era grossomodo tutto quanto gli restava da fare per il resto della notte. Avrebbe potuto così dedicarsi alla poltrona della hall e alla lettura dei classici. Non che fosse un amante della letteratura, tutt’altro. Gli bastavano infatti due o tre pagine di uno dei tomi che si portava dietro per sprofondare in un sonno profondo, dal quale in genere lo svegliava soltanto lo scampanellare di qualcuno dei fornitori, quando ormai faceva giorno. Ma quella notte di novembre non fu svegliato dai fornitori quando ormai indugiava al mattino. A destarlo, invece, e a strappargli imprecazioni dalla bocca impastata, fu un coro stregonesco più imponente del solito. E non arrivò, quella notte, in crescendo come era uso, ma irruppe come se fosse andato a sbattere contro la vetrata della portineria. Almeno così gli parve, in fin dei conti si era appena svegliato. Scosse la testa ancora imbottita dall’ovatta dei sogni e scrutò di là dal vetro. Fuori, nella piazza, una pletora di barboni, coperti di stracci e con le bottiglie alla mano, si contorceva in una danza furiosa. Tra questi, che si agitavano come in preda alle convulsioni, spaccando le bottiglie vuote e cantando canzonacce sguaiate, si muovevano a passo di danza giovani donne fasciate in abiti neri e attillati, pallide e coi visi sbaffati di nero su occhi e labbra. Queste sembravano divertirsi come pazze a orchestrare le danze dei pezzenti, e si lasciavano andare in scoppi di ilarità che pareva isterica. Nonostante la loro appariscenza il portiere non poté fare a meno di notare che queste avessero un’aria più che sinistra. Ma quando una di loro lo notò e si avvicinò alla vetrata, lui, dopo aver deglutito, non poté trattenersi dall’uscire, dato che quella, che non poteva avere più di vent’anni, lo invitava fuori con un gesto del dito indice curvo, come per prenderlo all’amo, con un sorriso malizioso cerchiato di nero.  Appena fu fuori ebbe l’impressione che la folla di straccioni e il gruppuscolo di donne che parevano coordinarli si fossero tutti girati verso di lui. Gli parve anche che il clamore che questi si impegnavano a produrre fosse aumentato, ma forse, pensò dipendeva dal fatto che il rumore non era più attutito dai vetri spessi della porta. Senz’altro era così, pensò, e in quel momento la giovane donna che lo aveva chiamato lo prese per i baveri della giacca, gli scostò il ciuffo di capelli dalla fronte e dopo essersi inumidita le labbra nere e lucide lo baciò sulla bocca.  Non fece in tempo a stupirsi del bacio che altrettanto inaspettato una spinta lo fece indietreggiare. Vide scomparire il sorriso della donna mentre veniva circondato dai barboni urlanti. Pensò che fosse arrivata la sua ora, pensò che fosse un modo idiota di morire, linciato da una massa di pezzenti puzzolenti e luridi, mentre si era sempre immaginato una morte eroica, tipo ucciso a pistolettate da un rapinatore mascherato. Ma non morì. Le ragazze intonarono un canto acuto che coprì lo strepitare etilico degli straccioni, che smisero di concentrarsi sul portiere per alzare lo sguardo silenziosi e intontiti, per poi seguirle come in processione una volta che queste si erano messe in cammino, continuando a cantare, finché non sparirono nei vicoli. Il canto invece continuò a risuonare dopo che la processione era passata.  Il portiere si alzò pesto e coi vestiti strappati e non ebbe dubbio alcuno nel seguire la processione, invece che tornarsene in albergo. Si mise solerte d’istinto alla ricerca del corteo correndo tra i vicoli, cercando di orientarsi con i canti, ma questo sembrava scomparso nella nebbia. Continuò a correre finché non dovette fermarsi ormai privo di fiato. Non era certamente uno sportivo, e le veglie al lavoro acuivano il vizio del fumo. Ansimò, sudato e dolorante, coi vestiti fradici appiccicati alla pelle che lo pungevano di umido. Rabbrividì, si guardò intorno. Non aveva idea di dove fosse. Non sembrava neanche la medesima città. Dalla nebbia affioravano portoni neri, dalle finestre si intravedevano gargolle mostruose. Non c’era più traccia delle insegne delle botteghe di cucina mediorientale e degli alberghetti pidocchiosi del centro. Il canto non era mai cessato. Appena ripreso un poco di fiato si tirò su il bavero della giacca e riprese a camminare, quasi con passo di zoppo.  Da dietro la nebbia sbucò una vecchia. Non era una vecchia normale, di quelle che si vedevano in giro, truccate, liftate e pompate, era una vecchia che sembrava una vecchia, con la pezzola in testa e il bastone. Camminava a fatica, sembrava un fagotto di stracci. Il portiere si avvicinò per chiedere indicazioni. Non aveva ancora aperto bocca che quella si fermò, annusando l’aria. Lui era abbastanza vicino per vedere due occhi come inondato di acqua melmosa spuntare in una cornice di rughe. Sembravano due pozze in un cratere lunare. Doveva essere completamente cieca, ma si accorse della sua presenza. Voltò la testa digrignando una bocca sdentata, gli occhi acquosi si fecero piccoli. Quello non fece in tempo a proferire parola che la vecchia prese a colpirlo col bastone con una velocità e una forza che non si sarebbero creduti possibile. Il portiere cadde a terra e si coprì la testa con le mani per cercare riparo da quella grandinata di bastonate. Quando questa finì ancora carponi si ritrasse, alzò lo sguardo. La vecchia era sparita.  Si trascinò ancora per i vicoli fino che sbucò in una piazza. Una piazza che non riconosceva, e non solo perché era inondata di nebbia, perché ne era più che sicuro, quella piazza non l’aveva mai vista. Eppure lavorava là da quasi vent’anni. Individuò finalmente la fonte del canto. In fondo alla piazza si stagliava una chiesa, imponente come una cattedrale, con la facciata imbrunita che si affacciava nel mare lattiginoso come la prua di una nave fantasma. Il corteo di straccioni era confluito all’interno. Dal portone socchiuso filtrava il canto cupo insieme a una luce debole. Vi si trascinò, per poi oltrepassarlo. Alla luce dei insieme ceri i barboni si erano liberati dei vestiti e erano chini verso l’altare come i fedeli di una moschea. Anche le donne erano svestite e officiavano un rituale intorno a quella che l’aveva baciato. Questa levitava a mezz’aria, e gemeva come in preda a un amplesso. Credette di sognare, si strizzò gli occhi. La giovane donna era ancora a mezz’aria. Quella ebbe un orgasmo violento e planò piano in mezzo alle consorelle, che la coprirono con un drappo. Lei aprì gli occhi e lo vide. Gli sorrise con denti bianchissimi e lo indicò. Le altre lo raggiunsero e lo trascinarono davanti a lei.  Quando le fu innanzi quella lo baciò di nuovo, sulla bocca e poi in fronte. Poi fece due passi indietro e intonò una specie di preghiera con la sua voce acuta, che sovrastava la cantilena sommessa che arrivava dagli straccioni inginocchiati. La voce divenne via via più roca fino a diventare cavernosa, disumana, a farsi tutt’uno con il brusio cantilenante di sottofondo. Alle sue spalle gli straccioni si erano levati in piedi e si erano avvicinati fino a circondarlo. Lo sospinsero verso l’altare, le donne lo afferrarono e ce lo legarono sopra, mentre quella che lo aveva baciato brandiva un pugnale rituale.

La mattina era fosca, la collega del turno di giorno arrivò in anticipo per dare il cambio al portiere di notte, ma trovò i fornitori in piedi a fumare e chiacchierare fuori dal portone. Chiese loro spiegazioni, ma quelli sbraitarono in coro indicando gli orologi, dissero che erano arrivati alla solita ora ma non avevano trovato nessuno. Lei, perplessa, ispezionò la reception e il backoffice in cerca del collega, che sembrava essersi volatilizzato. Sbrigò le pratiche e mandò via i fornitori, scusandosi del contrattempo. Poi chiamò a casa del collega, ma nessuno rispose. Il classico russo che stava leggendo era ancora sul bancone. Impensierita, chiamò gli ospedali, ma in nessuno di quelli era stato ricoverato qualcuno a quel nome. Lasciò perdere, i clienti in procinto di lasciare l’albergo stavano già scendendo, assonnati e frettolosi, per effettuare il check out. Il collega, pensò, si sarebbe fatto sentire, e se la sarebbe vista col direttore, problemi suoi. Ma nessuno, dopo quella sera, lo vide mai più.