Racconto di Daniele Rossi

(Seconda pubblicazione – 16 marzo 2019)

 

Sono nato e cresciuto in un piccolo centro alla periferia di La Spezia.

Il tessuto sociale era composto in gran parte da operai, poi gli impiegati, artigiani un paio di imprenditori, tutti quanti con umili origini.

Stiamo parlando degli 60/70, le loro giornate spesso finivano al Circolo, un’Arci dotato perfino di campo da bocce e di un biliardo a boccette.

Le loro vite si intrecciavano li, davanti a  bicchieri di vino o ai caffè dei dopo cena.

Se chiudevi gli occhi ed ascoltavi ti arrivavano da qua e là le diverse proprietà di linguaggio, dal dialetto al perfetto italiano dell’impiegato dell’ufficio anagrafe che amava ascoltare l’opera, al dialetto misto italiano dell’imprenditore edile affermato le cui fortune affondavano le radici in un’infanzia da orfano e per questo rispettato a prescindere.

Non tutti parlavano tra loro, l’idraulico non era ben visto in quanto dichiaratamente socialista, questo era grave in paese dove le percentuali di votanti Partito Comunista erano inferiori solo a Carpi di Modena.

Si sfidavano tra loro, mettendo in campo una voglia di rivalsa, si sfidavano giocando a scopone, la sacralità dello scopone parificava le diversità e l’umile operaio poteva superare e sconfiggere l’impiegato acculturato o l’agente di commercio che girava l’Italia, quando capitava, l’orgoglio era grande e al rientro a casa ne avrebbe avuto notizia pure la disinteressata moglie, penso che quelle vittorie a scopone qualche volta abbiamo anche scatenato adrenalina e testosterone con consequenziali atti d’amore.

Prendevo parte a quella vita sociale al Circolo con un ghiacciolo all’arancia in mano o occupando il campo da bocce, eh si, noi ragazzini ci giocavamo per ore finchè i grandi non ci cacciavano, prima di farlo però ammiravano la nostra abilità bocciofila, una ragazzo che gioca anche meglio di loro sapeva di qualcosa di inusuale e inaspettato.

Anche mio nonno scendeva per il caffè, un lusso che si concedeva, ma da casa si portava il suo cucchiaino avvolto nel fazzoletto perché chi sa chi se l’era messo in bocca, all’epoca il cucchiaino dopo aver girato il caffè veniva succhiato, un gesto che oggi non si vede più ma all’epoca cosi era. Comunque mio nonno in quel fazzoletto annodato dove teneva il cucchiaino conservava anche il suo denaro, non male come soluzione.

Mio padre, un ottimo giocatore di scopone ed un eccellente consumatore di bicchieretti di bianco. Passava gran parte della sera anche seduto sul terrazzo, guardava l’orizzonte, pensava e rimuginava, una persona troppo pensante, caratteristica che mi ha tramandato, a sua volta l’aveva ricevuta da mio nonno, una caratteristica di famiglia l’esser troppo pensanti.

Anche il guardar l’orizzonte era una forte caratteristica nostra, pensando, rimuginando.

Già, il guardar l’orizzonte, un’attività che chiudeva la giornata, momenti di pensiero passati con una Nazionale Esportazione senza filtro tra le dita, poi a letto ad orari impensabili come le 21.30 che alle 22 era già tardi.

Quella piccola terrazza per mio padre e l’aia sottostante per mio nonno era il loro campo dove facevano giocare la loro malinconia, una malinconia non triste, piuttosto una nostalgia di qualcosa che poteva esser diverso ma non era.

Mio nonno picchiato dai fascisti, suo figlio comandate partigiano, suo fratello l’altro figlio di mio nonno, mio zio, sommergibilista e innamorato del fascio, bel mix, grandi tensioni nonostante l’affetto.

Durante il rapimento Moro mio padre montava di guardia, letteralmente, montava di guardia sulla terrazza, seduto sulla vecchia poltroncina di vimini con ai piedi il portacenere il fiasco di vino ed il mitra che conservava dalla guerra di Resistenza, montava di guardia, perché a suo dire se arrivano lo trovavano e lo trovavano pronto.

Mio nonno in quel periodo andava a letto ma poi si alzava apriva lo sportello della persiana verso mezzanotte e guardando verso la terrazza di mio padre gli chiedeva, Filippo ti faccio il caffè?