Racconto di Lucia De Bortoli

(11 pubblicazione – 19 marzo 2021)

 

 

«Non credo al tuo pentimento».

Giulia gli punta gli occhi addosso desiderando trafiggerlo come nel film visto la sera prima in cui un uomo cadendo da una finestra non molto alta, si infilzava sulle lame appuntite del cancello sottostante.

In quel momento la scena l’aveva rabbrividita, ma ora desidera per Paolo la stessa scossa di dolore che aveva finto l’attore di quel film.

«Non credo che tu abbia mai provato pentimento per niente».

La stanza odora di mentolo e disinfettante che si mescola al profumo di Calicantus che proviene dalla finestra appena aperta verso il giardino invernale, spoglio e parco di vita.

Il pavimento in legno scuro ha perso la lucidità ed è segnato in ogni punto della stanza con solchi più evidenti, a partire dalla porta, fino a diradarsi verso la libreria, per poi accentuare le linee nere vicino alla finestra. Giulia da molto tempo non legge, ma rimane ore a fissare un punto qualsiasi oltre il giardino, pronta nel vedere un segno che le renderà la vitalità persa.

Il ripiano del tavolino vicino a lei è ricoperto di scatolette, boccette e fazzoletti, tanto da non vederne il colore, a guardare le gambe sembra di legno antico, ma in qualche angolo sporge un marmo chiazzato e opaco che ricorda un vecchio stile ottocentesco. Non ricorda neppure dove l’ha acquistato, non vuole ricordare quasi più nulla.

Da molto tempo quella stanza dai muri ingialliti e le tende sbiadite è il suo rifugio, dove rimanere lontana da una realtà difficile per non essere circondata da ricordi, da un passato in cui era felice e dal quale è stata sbalzata lontano.

«Credi che non sappia quanto ti faccio schifo? Quanto sia detestabile questo odore di stantio e morte, di muffa e vuoto che c’è in questa stanza. Ogni libro urla la libertà, desidera la luce, ma rimane chiuso al buio tra fogli mangiati dai tarli. Persino il sole schifa la mia finestra, la sfiora appena imbiancando i vetri opachi e chiazzati dalle mosche. Tutto intorno a me è morte, metà del mio corpo lo è. Io lo sono dentro. E ora tu mi dici che sei pentito».

Le ruote stridono sul legno, Giulia gli dà le spalle e si avvicina alla porta, si allunga con il busto e afferra la maniglia, le nocche si imbiancano mentre si sta aggrappando per aprirla, ma qualcosa la trattiene. Abbassa lo sguardo, vede le gambe e chiude gli occhi così forte da creare dei flash luminosi nella sua mente, per cancellare il buio intorno a sé, ma è solo un attimo, poi tutto torna come prima e con debole spinta si muove fino al tavolino, sorridendo appena, guarda le pastiglie di antidepressivi, antidolorifici, antistaminici, tutte quelle che mezzo corpo può ingurgitare nella vita che le rimane, per non soffrire più di quanto possa sopportare.

«Non voglio la tua pietà, non l’ho mai voluta, e ora che mi vedi qui, sopravvissuta, puoi andare, la tua coscienza è pulita, il tuo dovere lo hai fatto. Esci da questa stanza, ma non venirmi a dire che sei pentito e che ti dispiace. Ho perso le gambe, ma la testa non ancora».

L’ombra di Paolo si allunga e si deforma verso la libreria, immobile e muta attende che il sole tramonti del tutto per eliminare ogni segno di sé e permettere al buio dell’oblio di cancellare ogni traccia.

Giulia segue il suo disegno a terra fino a raggiungere il profilo nero del naso che tocca il suo libro preferito, ora diventato quasi profetico: “Cime tempestose”.

«Allontanati da lì!» gli ordina con rabbia «non toccare nulla, nemmeno con la tua ombra».

L’assurdità della richiesta non stupisce, l’abitudine può diventare normalità anche nel dolore o nella cattiveria e negli anni le frasi ripetute con ostinazione si tramutano in intercalari vacui senza significato.

Paolo si avvicina alla porta ricongiungendo finalmente il corpo alla sua ombra così da non sfiorare più nulla di quella stanza.

Le parole non dette vengono mangiate dal consueto silenzio diventato rassicurante e lasciano tutto lo spazio al buio amico.