Racconto di Maria Pia Rosati

(Sesta pubblicazione)

 

 

In tutti questi anni, ogni qualvolta ho raccontato di noi, mi è piaciuto ricordare i nostri sguardi commossi e rapiti davanti allo spuntare dell’alba su Gerusalemme. Tu mi svegliasti, dopo che la luce filtrata dagli infissi ti aveva aperto gli occhi. Spalancammo la finestra e restammo in silenzio per lo stupore, alcune lacrime cominciarono a scorrermi lungo le guance e allora tu mi stringesti la mano. Non credo che dimenticherò mai quell’emozione. Se chiudo gli occhi ricordo anche il fragore e la freschezza delle cascate in Islanda, la montagna rosso fuoco nel mezzo del deserto australiano, i profumi di spezie e il canto del muezzin nelle città del Marocco, i villaggi sulla riva del Gange, il silenzio irreale dei templi giapponesi, l’acqua cristallina e la sabbia dorata dei Caraibi, le brughiere viola spazzate dal vento sulle coste d’Irlanda… Come potevamo non amarci dopo aver volto sguardo nella stessa direzione su così tanta bellezza? Eravamo nati come compagni di viaggio, ricordi. Abbiamo attraversato il mondo in lungo e in largo con la voglia di conoscere quanto ancora ci fosse da scoprire. Se dovessi spiegare chi siamo ad uno sconosciuto gli farei vedere le foto dei tanti luoghi visitati. E aggiungerei: siamo solo due viaggiatori.

Sembrava che non potessimo fare niente di meglio io e te, insieme: io con il mio matrimonio fallito sulle spalle, tu che avevi sempre desiderato tutto, ma fino a quel momento non avevi costruito niente. E’ stato al ritorno da una vacanza in montagna, mentre guidavi lungo i tornanti, che ti ho detto: “Stiamo tornando in tre”. E non mi sbagliavo. Poi tutto era finito davanti a quel monitor: “Non c’è più il battito, mi dispiace”, era stato il verdetto della dottoressa mentre scorreva invano la sonda sulla mia pancia. Non credo di aver mai visto in tutta la mia vita uno sguardo più ferito del tuo. Mai. E mi sono sentita in colpa per aver infranto il tuo desiderio più grande. Ma io quello sguardo deluso non riuscivo proprio a sostenerlo. Ho pensato che ci saremmo lasciati di lì a poco per continuare a vivere ognuno con il suo dolore e capire cosa farne. Tu, invece, con mio grande stupore, mi hai chiesto: “Partiamo? Andiamo nel luogo più lontano da qui e dimentichiamo tutto. Vuoi?”  E siamo tornati ad essere soltanto compagni di viaggio. Da bambina, ogni qualvolta si doveva partire per le vacanze, i miei genitori diventavano nervosi e litigavano furiosamente per un nonnulla. E avevo cominciato a detestare le partenze. Fino a quando ti ho incontrato. Se in viaggio vivi le emozioni e ti commuovi con l’uomo che ti è vicino, cosa ti può più far allontanare da lui? E abbiamo scoperto insieme l’incanto delle incontaminate terre australiane, dalla barriera corallina fino alla polvere rossa del deserto.

Ricordi cosa è successo quando siamo tornati? Ho detto sì quando mi hai portato il cane, un cucciolo di pastore tedesco, che fin da bambino avevi desiderato, ma che non avevi avuto il coraggio di prendere. Soltanto dopo molti anni ho scoperto che per un solo giorno avevi provato la gioia di averlo.  Ma poi aveva sporcato in casa e così tua madre lo aveva mandato via. Non lo avevi più trovato quando eri tornato da scuola. E eri scoppiato in un pianto di dolore che non riusciva a trovare consolazione. Quel dolore te lo sei portato dentro per tanti anni fino a quando non hai incontrato me. E io quel cane l’ho accolto e amato come una parte di noi.

Ho detto un altro sì quando abbiamo deciso di provare ad essere di nuovo in tre. E sono vissuta per tutti quei lunghi nove mesi con un dubbio: e se fare il padre non ti fosse piaciuto? Ho sempre pensato che non fossi mai stato veramente innamorato di nessuno, forse neanche di me… Ma ho accettato il rischio e mi sono fidata del mio istinto. E stavolta non mi sbagliavo: sei il padre più presente e felice che si possa immaginare, non potevo sceglierne (o non poteva capitarmene) uno migliore. Eppure…

Chiusi dentro la quotidianità, legati ai rituali della convivenza, dove tu hai finalmente provato a te stesso la tua capacità di amare, io mi sento stretta. Mi manca la parte di noi che abbiamo perso, forse quella migliore. Non sei riuscito ad essere padre e compagno allo stesso tempo. In nome dell’amore assoluto che provi per nostra figlia, hai messo da parte noi. Non te ne faccio una colpa, credimi. Ognuno ama come può. Ho sempre immaginato i cuori degli esseri umani come tante case, ognuna uguale solo a se stessa: una grande villa a più piani, con ampie finestre il mio cuore, dove c’è un posto per te e per nostra figlia, ma anche per i genitori vecchi e malati, gli amici, i cani e i gatti vecchi e malati pure loro: tutti che vanno e vengono perché le finestre e le porte sono spalancate. Il tuo invece è un monolocale di 30 mq con cantina annessa: nostra figlia ha occupato l’unica camera; tu, sulla porta, controlli chi entra e chi esce. E io sono finita in cantina insieme a quel cane che hai tanto voluto, ma poi dimenticato. E la paura si è arrampicata sui muri della mia villa: ti potresti dimenticare anche di me? Quel dubbio si è affacciato spesso, ma ogni volta l’ho scacciato. Ho ripensato a quelle parole lette tanti anni fa quando ero al liceo e rimaste scolpite nella mente perché mi sembrava racchiudessero l’essenza dell’amore: ”Amatevi come compagni di viaggio”. Ho sempre creduto che in quella frase ci fossimo dentro anche noi.

Con grande entusiasmo abbiamo progettato quel lungo viaggio da fare noi tre, per la prima volta, in un’altra terra tanto lontana quanto affascinante. L’itinerario era stato studiato da mesi, i voli prenotati con largo anticipo, tutto sembrava pronto per questa nuova avventura. Ma sì, partiamo!

Ma poi la vita irrompe all’improvviso e butta all’aria i nostri piani, i progetti, i desideri e, da un giorno all’altro, porta via tutto, anche la quotidianità.

E così ho iniziato un nuovo viaggio, stavolta da sola, lungo corridoi d’ospedale percorsi da camici bianchi con un bagaglio molto più pesante di quello che trascinavo fino agli imbarchi degli aeroporti. Un fardello fatto di incertezze, di paure che si trasformano in angoscia. Ora posso confessarlo: avrei voluto sparire, perdere consistenza fino a dissolvermi in una nube densa di pioggia nei plumbei cieli di Scozia, oppure passare allo stato liquido come l’acqua gelida di un torrente in una valle delle Dolomiti. E invece sono rimasta quella che ero. Ogni giorno un percorso da compiere dentro me stessa per cercare di dare un significato a tutti quei gesti banali che riempiono le nostre giornate e a cui non diamo importanza. Ma non a tutto sono riuscita a dare un senso.

Come hai potuto prendere quell’aereo che ti ha portato così lontano da me? Come hai potuto rincorrere i pinguini o godere della vista delle nevi antartiche senza di me? Ho avuto voglia di scappare anch’io sai, in un luogo, se possibile, ancora più lontano…Poi ho capito che spesso ci vuole più coraggio a restare che a fuggire via. E sono rimasta ad attendere il ritorno tuo e di nostra figlia.

Ma il mio viaggio non è ancora finito. Ho raggiunto il primo traguardo: le salite scoscese sono state superate, ho barcollato ma non sono caduta lungo le ripide discese. È stato il più faticoso dei viaggi: ho sentito il freddo gelare nelle vene e vampate di calore strozzarmi il respiro. Ora il percorso fa meno paura: scorgo davanti a me le colline poi le pianure. Ma la meta è ancora lontana e richiede la costanza e la pazienza che non ho mai avuto.

E questa volta ti propongo io un viaggio, un lungo percorso dentro di noi che ci faccia ritornare quelli che un giorno siamo stati, che ci riporti nel punto da cui siamo partiti. Un luogo da cui continuare a guardare nella stessa direzione come tre compagni di viaggio.

Che dici: partiamo?

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