Racconto di Giorgio Rinaldi

(Nona pubblicazione)

 

 

 

È il 1995 e ho trentadue anni. Sono da poco diventato marito e padre, ho trovato da poco un lavoro decente e da poco mi sono ritrovato ad essere figlio. È un periodo di cambiamenti e certe cose sembrano mutare completamente rispetto alle certezze che avevi. Essere padre ancora appare troppo facile, mentre essere figlio diventa più difficile di quanto avessi immaginato.

Sono le otto di mattina di un venerdì di primavera e sono qui, in ospedale, con mia madre e mio fratello ad aspettare che operino mio padre. Devono asportare un lipoma che, dopo due precedenti operazioni, ora pare si sia infiltrato più del dovuto.

La Primavera è ancora più bella al centro di Roma. Osservate da quassù, dove i dettagli sfumano nell’immensità della visione, la Stagione e la Città sembrano rincorrersi nel fare l’una da sfondo all’altra, in un affresco che cambia al cambiare dello sguardo. I platani del Lungotevere, l’isola Tiberina che emerge, solida, tra i flutti opachi del fiume, i cormorani ormai stanziali che si tuffano a turno tra le rapide, tutto occupa perfettamente lo spazio a cui sembra destinato da sempre. A sfidare questa solennità c’è una coppia di ragazzi che, poggiati l’una alla schiena dell’altro, siedono sui gradoni che portano fino all’acqua e condividono il sole di Roma e le ore rubate alla scuola. La loro presenza basta a se stessa, è completa, è libera. Non appartiene ad alcuna visione, non ha riguardo né del tempo né dello spazio, ma nonostante ciò, sempre e ovunque, rappresenterebbe il tocco finale, l’elemento mancante di ogni affresco.

Purtroppo da questo finestrone, al primo piano dell’ospedale, si sente anche il rumore del traffico e il suo odore che si mischia con l’odore dolciastro di disinfettante. Non sappiamo se mio padre sia già sotto i ferri perché la Caposala ci ha detto solo di aspettare qui davanti al blocco operatorio e che dopo l’intervento, magari, proverà a farci parlare con il chirurgo. Il corridoio si affolla sempre di più mentre noi aspettiamo senza dirci una parola. Iniziano a passare veloci alcuni medici, si incrociano sul corridoio, alcuni si salutano, altri si scambiano solamente un cenno della testa o della mano. Hanno il camice bianco, quindi non sono chirurghi o quantomeno stamattina non sono in sala operatoria. Di camici verdi nemmeno l’ombra, ma è ancora presto per loro, hanno iniziato da poco a ricomporre minuziosamente ogni pezzo ammalorato di queste macchine quasi perfette.

Sono le dieci e ho voglia di fumare. Mia madre sta parlando con un signore in pigiama che, appoggiato all’asta per le flebo, le snocciola tutte le evoluzioni della sua malattia che, dopo anni di sconquassi fisici e mentali, ancora lo porta qui a tentare l’ennesima terapia. Penso che è un imbecille e che non dovrebbe fare così. Dovrebbe capire che se una è lì, ad aspettare il marito che esce dalla sala operatoria, bisognerebbe parlarle di speranza e non di disperazione. Lo prenderei a schiaffi ma in fondo lo capisco, ha un bisogno estremo di condividere i suoi guai con chi non conosce il suo passato, con chi non potrà mai dire beh, in fondo in fondo te la sei cercata o sentenziare te l’avevo detto io. È alla ricerca di un conforto genuino, di conferme sul fatto che, qualsiasi cosa abbia combinato nella vita, non c’èun solo elemento che possa associarsi alla sua malattia, che è solo questione di fato.

Faccio un cenno a mio fratello e scendo a fumare una sigaretta. Alla fine le sigarette sono due perché la prima è finita in un attimo, tre o quattro tirate ed ero già al filtro. Mi piacerebbe rimanere un po’ qui a zonzo, tra i turisti e la storia, ma sono le undici e devo risalire; devo tenere d’occhio quella vetrata opaca, devo parlare con il primo camice verde che esce da lì, qualcosa mi dovrà dire. Mia madre ora è in piedi davanti alla porta della Sala Infermieri cercando di strappare qualche notizia su mio padre, ma nessuno sa ancora niente. Siamo rimasti in pochi su questo corridoio, noi e altre due persone, un uomo anziano che sta aspettando il fratello operato di ernia inguinale e una ragazza sui vent’anni che ha accompagnato il fidanzato per un piccolo intervento ad una cisti al polso. Io mi siedo su una poltroncina in pvc proprio vicino alla vetrata, da qui non può sfuggirmi e appena comparirà da là dietro il primo camice verde, lo bloccherò e mi farò dire tutto.

All’improvviso, dietro la vetrata, vedo due figure sfocate che discutendo tra di loro stanno per uscire. Sono chirurghi e si stanno togliendo mascherine e copricapo. Escono sul corridoio. Io mi alzo in piedi per tentare di parlare loro, ma sono talmente presi nella discussione che neanche mi vedono.

«Senti, io non sono sicuro che sia la cosa giusta da fare. Tu vorresti sbattergli in faccia così la verità? A che serve, a farlo deprimere ancora di più?» dice quello più basso, un tipetto giovane, moro e minuto.

«È un uomo, mica un bambino! E che vorresti fare, raccontargli una barzelletta?» gli risponde l’altro, una figura slanciata, con gli occhiali e un paio di folti baffi rossicci. «Gli racconti la favola di Cappuccetto Rosso e lo convinci che il lupo cattivo muore sempre?»

«No, non dico questo, ma un po’ di sensibilità ci vuole, si può dire la verità anche addolcendola un po’» dice il moretto.

«E che verità è? Uno deve sapere cosa l’aspetta, deve sapere che, se ha dei conti in sospeso, può correre a sistemarli o decidere di lasciarli così; deve sapere che a breve dovrà lasciare i suoi cari e io non voglio precludergli la possibilità di fare l’ultimo viaggio con la moglie o riabbracciare quel figlio con cui ha litigato tanto tempo fa, oppure guarda, anche di liberare l’anima da un vaffanculo finora soffocato dalle opportunità. Insomma voglio renderlo libero di fare delle scelte» gli risponde accalorato il baffuto.

«Nessuno riesce mai a chiudere tutti i conti o a dire tutte le parole che non ha mai detto» ribatte il moro «tanto vale non abbatterlo subito con un carico così pesante, capirà da solo».

Continuando così si allontanano lungo il corridoio. Io provo a seguirli per chiedere di mio padre ma, dopo una decina di passidietro ai due, che mi ignorano completamente, rinuncio e torno a sedere ripensando alle loro parole e alle posizioni diametralmente opposte. Ma con il paziente chi l’avrà spuntata? Avranno reso un uomo consapevole della prossima fine proclamando la sua condanna a morte, oppure l’avranno lasciato in un consolante, ipocrita dubbio? E chi è il paziente che ha scatenato quella discussione? Il dubbio che stiano parlando di mio padre non fa in tempo a stabilirsi nella mia mente che vengo letteralmente tirato su per un braccio dal chirurgo baffuto, tornato indietro mentre io ero ancora assorto alla ricerca di risposte. «La Caposala mi ha detto che lei è il figlio del paziente operato stamattina per un lipoma». Io vorrei dire sì, però resto muto, anche quando il chirurgo apre una porta lungo il corridoio e mi trascina dentro una stanzetta semi buia dicendo «Venga, le devo parlare.» Ha una casacca con le maniche corte e quando appoggia gli avambracci sulla scrivania noto che è pieno di peli fin sopra le falangi delle dita. La scrivania è spoglia, senza riferimenti personali, probabilmente è un ufficio usato anche da altri medici. La penombra, che occupa ogni millimetro di quello spazio, è la condizione ideale per parlare di due cose, di amore e di morte, e non devo attendere molto per avere conferma di cosa parlerà il chirurgo.

«Ci abbiamo provato con suo padre, ma, dopo quasi sei ore di intervento, il rischio di complicazioni era talmente alto che abbiamo deciso di richiudere. Purtroppo il lipoma ha assunto un carattere maligno e dalla spalla si è infiltrato un po’ dappertutto nel torace, mi dispiace. Ora è in rianimazione e ci resterà per qualche giorno. Comunque dovrà fare delle terapie per cercare di ostacolarne la crescita, vi daremo tutte le indicazioni da seguire». Poi si alza, mi porge la sua mano pelosa ed io glie la stringo mollemente, con un gesto automatico. Tutte le domande che avevo in mente ora mi appaiono inutili, senza senso e mi si spengono una dopo l‘altra prima di arrivare alle labbra. Non ricordo se fossi da solo in quella stanzetta ad ascoltare il chirurgo o se mio fratello fosse entrato con me, ma ciò che ricordo bene sono gli occhi di mia madre che sul corridoio mi interrogano con un’espressione sospesa.

È il 1995 ed è una bellissima giornata di primavera qui, al centro di Roma. Ho trentadue anni e a questa età dovrei avere il coraggio di riferire a mia madre tutta la verità su mio padre. Parliamo per cinque minuti, ma alcune parole non riesco proprio a pronunciarle.

Mio padre se ne è andato di novembre, alle otto di mattina, a poco meno di due anni da quell’intervento. Non ho mai più incontrato quei due chirurghi e non so se mio padre abbia percorso con piena consapevolezza quell’ultimo tratto sconnesso di vita. Di una cosa, però, mi sono convinto: nessuno riesce a chiudere tutti i conti o a dire tutte le parole che non ha mai detto, ma poter scegliere se farlo o non farlo può restituire un senso a tutto.

 

 

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