Racconto di Maria Laura De Luca

(prima pubblicazione – 30 settembre 2020)

 

 

Le lunghe ciocche biondo platino cadevano sul pavimento. Riuscivo a sentirne il rumore. Un fresco leggero iniziava ad accarezzarmi la nuca.

“Ti sei decisa tesoro? Nero inchiostro o vuoi il notte d’inverno?”

“Inchiostro” risposi sbirciando la mia immagine che si trasformava nello specchio.

“Stai un incanto!” mi disse stampandomi un bacio pesante sulla fronte.

La macchina di Michela era un cassonetto a motore, ma le ero comunque grata del prestito. Non credevo che la mia vecchia carretta mi avrebbe lasciato così presto, proprio nel giorno del mio tanto atteso pomeriggio. L’indomani avrei potuto prendere la Q5 grigia di mio marito, se mi avesse mai permesso di toccarla.

Sulla Tuscolana c’erano almeno due quintali di fari, qualche tonnellata di pneumatici e forse un migliaio di persone divise tra automobili e marciapiedi. Vestita di nuovo dal cappotto alle scarpe, con sessantasette euro di sushi comodamente addormentati sul sedile accanto al mio, premevo molto più spesso il freno dell’acceleratore.

“Traffico maledetto!” borbottai colpendo lo sterzo con il palmo della mano “Per una volta che decido di fare una cosa! Per una stramaledetta volta!” esclamai come se il sushi potesse sentirmi.

Risposi al telefono schiacciando il tasto sul filo dell’auricolare, senza nemmeno controllare chi fosse.

“Lei è la signora Tania?” mi chiedeva una voce con l’accento dell’est.

“Si” risposi annoiata, ero di nuovo nel vicolo cieco dei call center, non ero mai riuscita a chiudere in faccia a nessuno, subivo almeno quattro abbondanti minuti di informazioni per me totalmente inutili prima di trovare il coraggio di dire che avrebbero dovuto chiamarmi in un altro momento. Forse perché ero stata anche io una di loro.

“Le volevo proporre un’offerta migliore per la sua connessione internet…” la voce era metallica e preimpostata, mi rimbalzava sui timpani come i bambini sui tappeti elastici. Gli occhi si perdevano nel rapido fluire della folla che si sorpassava nei piccoli ritagli di spazio tra la borsa e le spalle del suo vicino di marciapiede: una signora passeggiava con un pincher talmente piccolo da dover controllare ad ogni passo che non fosse calpestato, un gruppo di ragazzine in minigonna si muoveva in blocco come un banco di pesci, cambiando solo forma per assottigliarsi e passare in mezzo a tutta quella gente, una ragazza di almeno dieci anni più piccola di me sosteneva con le mani sotto l’ombelico il peso di un pancione enorme. Notavo sempre le pance, io non ne avrei mai avuta una. Il suo passo era goffo ma accelerato, le sopracciglia raggrinzite e la bocca deformata in una smorfia di dolore, riuscivo a vederla sempre meglio.

“…senza scatto alla risposta e per sempre, va bene signora Tania?”

Aveva il viso gonfio e le ginocchia molto distanti, il cappotto scivolato giù dalle spalle soprattutto da un lato e si avvicinava a me. Si era accorta del mio sguardo, forse ero stata invadente. Ho premuto l’acceleratore anche se la macchina davanti a me non si era mossa di un millimetro.

“Va bene signora Tania?”

Fissando il traffico ho risposto all’operatore: “Guardi per ora preferirei non parlarne…”

“Aiutami! Aiutami ti prego!!!” la ragazza con il pancione bussava violentemente sul finestrino opposto al mio “Ti prego!” continuava a supplicarmi. Ero confusa, ho preso il sushi, l’ho tirato come un aeroplanino di carta sul sedile posteriore e mi sono allungata per aprire la portiera. La ragazza si è lanciata nell’auto sdraiando immediatamente lo schienale, si aggrappava allo sportello. “Mi si sono rotte le acque” gridò con gli occhi stretti tra le palpebre accartocciate.

“Adesso non posso signora, mi scusi” liquidai la voce metallica.

Stavo per fare la corsa in ospedale che avrei tanto sognato per me, stavo per vivere quei minuti di paura ed emozione durante il tragitto, senza essere la protagonista.

“Che ospedale?”

“Sant’Andrea, sbrigati” rispose con la voce strappata dal dolore.

“Uno un po’ più lontano te ne potevi scegliere” borbottai attaccandomi al clacson.

“Hai chiamato qualche parente? Tua madre? Qualcuno?” le chiesi preoccupata di svincolarmi al più presto da questa situazione per tornare alla cena romantica salva-matrimonio che avevo dettagliatamente pianificato.

“Ho avvisato il mio compagno, mi raggiunge lì”

“Bene. Quanto tempo abbiamo?” chiesi nervosa.

“E che ne so? È la prima volta che partorisco!” ribattè acida e stizzita.

“Non ti innervosire, non mi sembra il caso. Prova a respirare, a rilassarti, fa qualcosa ma cerca di non sentirti male e di non partorire qui” la rimproverai inadeguatamente. Era invidia, quella vena sottile di amaro che cucivo in ogni parola, invidia per quel pancione e per quel compagno così pronto ad esserci per lei.

Il mio telefono iniziò a squillare. Era mio marito. Nel momento meno opportuno come sempre. Risposi per non mandare a monte il mio armistizio prima ancora di averlo proposto.

“Dimmi” risposi velocemente.

“Non ci posso credere! Anche la mia macchina oggi si è fermata. Adesso però sono in una situazione urgente e non posso venire a prenderti, dovrai aspettarmi per un po’” risposi quasi sollevata da quell’imprevisto, piccoli sacchi di colpa cadevano giù alleggerendomi le spalle.

“Ok, fammi sapere quando arriva il meccanico io ti chiamo appena ho fatto! Ti aspetto per cena” sussurrai con dolcezza.

“Wow.. che romanticismo” commentò la ragazza in uno dei sempre meno frequenti spazi tra una contrazione e l’altra.

“Non è tutto oro quello che luccica” spiegai spingendo ancora il clacson a ripetizione.

“Perché?” chiese girandosi verso di me per la prima volta.

“Intuito femminile” la liquidai per troncare il discorso.

“Tu invece? Il tuo compagno è già lì?” indagai per dirottare la conversazione e per capire quanto ancora sarei rimasta intrappolata in quell’imprevisto.

“Eccolo!” esclamò mentre il suo cellulare squillava.

“Amore?”

“Sto in macchina con una signora che mi sta dando un passaggio, tu sei già lì?” chiese con una voce colma di trepidazione.

“Ah, sbrigati ti prego sbrigati che sto morendo di paura e non so cosa dire!” urlò con un tono lamentoso.

“Abbiamo una storia un po’ complicata ma i problemi non sono i nostri” riprese non appena ebbe riagganciato.

“In che senso?” mi lasciai incuriosire.

Un urlo soffocato e un calcio sul cruscotto furono le risposte, un’altra contrazione ad appena tre minuti dalla precedente.

“Lascia perdere” sussurrò non appena ebbe di nuovo fiato per parlare.

Le luci dell’ospedale si intravedevano in lontananza.

“Ti prego entra con me! io ho paura” mi disse quella ragazzina con gli occhi pieni di un terrore che faceva paura anche a me.

“Non mi sembra il caso dai, ci sarà il tuo compagno” temporeggiai sperando in un ripensamento.

“Non sarà ancora arrivato non mi lasciare da sola ti prego” mi supplicò.

Nella sera in cui avrei dovuto provare a rimettere insieme il mio matrimonio, mi trovavo ad accompagnare una ragazzina di vent’anni in pieno travaglio, fonte inesauribile di ogni incontrollabile invidia per me, sterile come un deserto. Avrei voluto evitare almeno di trovarmi in sala parto.

“Arriviamo e poi se lui non c’è vediamo cosa fare, tanto lì ci sono i medici” presi tempo ancora per evitarmi almeno quel dolore.

“ok” accordò poco convinta.

Entrammo nel parcheggio e in uno slalom impensabile riuscii a raggiungere lo spiazzo davanti al pronto soccorso ostetrico.

“Eccolo eccolo! È arrivato!” disse svelando il suo primo sorriso ai miei occhi “Grazie” sussurrò scendendo goffamente dall’auto. Lo sportello si chiuse con un rumore secco e poco rassicurante.

Seguii con lo sguardo quella giovane donna cercando di accantonare il fumo dell’invidia, cercando di augurarle che tutto potesse andare bene, la accompagnai con gli occhi per assicurarmi che il suo compagno la trovasse e se ne prendesse cura. Si avvicinò a una macchina scura nascosta nel buio.

L’uomo scese per dirigersi verso di lei, le cingeva la vita sostenendola ad ogni passo, potevo vederlo solo di spalle ma la tenerezza di quel gesto, l’amore che ne trasudava mi riportò al primo appuntamento con mio marito, quel ragazzo che ancora mi illuminava il cuore. Presi il cellulare per chiamarlo. Al primo squillo l’uomo davanti a me infilò una mano in tasca e appoggiò il telefono sull’orecchio.

Il lamentoso grido di un’ambulanza risuonava nel parcheggio e nel mio auricolare.

“Scusami tesoro passava un’ambulanza non ti sentivo… il meccanico ancora non si vede.”