Racconto di Mike Papa

(Seconda pubblicazione)

 

Quello che hanno chiamato ”lockdown”, un anglicismo che odio, buono per chi è convinto che in italiano non ci sia la parola corrispondente, ha relegato me e mia madre nel nostro minuscolo ap­partamento, ma non ci ha modificato molto la vita.

Anzi, per niente.

La mamma ha continuato a stare a letto come ormai da quasi due anni, io a occuparmi di lei.

Sono esausta.

Pensandoci, se qualcosa è cambiato è l’acuirsi della mia spossatezza: quasi due anni di assoluta dedizione avevano già minato la mia resistenza e il complicarsi anche delle cose più semplici non poteva che darmi il colpo di grazia.

Ma siamo sole, nessuno che ci possa aiutare. Due naufraghe sperdute nell’oceano dell’indifferenza. Siamo invisibili.

L’unico che veniva a trovarci, fino a poco tempo fa, era Pawel, il figlio dei Kowalczyk, gli immigrati polacchi che abitano nel palazzo di fronte.

Ma non era per cortesia o altruismo: veniva quando era alticcio, questa era una condizione impre­scindibile, per scaricare la sua libidine accesa dall’alcol, sapendo di avere gioco facile, con me. Non ricordo neanche come è cominciata, se con un sorriso, un apprezzamento…

La mamma, già rimbambita nel suo letto, non si è mai accorta di nulla.

Lui mi baciava il seno mentre io lo toccavo finché non schizzava il suo seme appiccicoso e rivol­tante.

Non siamo mai andati oltre quello.

Be’ no, è inesatto, un paio di volte me lo ha messo in bocca. Non mi sono pentita di averglielo fatto fare, nonostante il disgusto che ho provato, fino a vomitare, perché dopo mi ha lasciato una banco­nota sul tavolo della cucina. Sì, come fossi una sgualdrina, ma non fa niente. Ci ho comprato un vassoietto di paste per il compleanno di mamma. L’ho resa felice, almeno quel giorno. Spero.

Non ho mai avuto la sua conferma.

Ciò che non dirò mai a voce alta, neanche sotto tortura, è che le visite di Pawel in qualche modo mi lusingavano, giù in fondo all’anima, nutrivano il mio amor proprio, anche se so benissimo che erano dettate solo da impellente e squallida lussuria. L’ho capito subito, non sono una stupida.

Ma un surrogato d’amore certe volte te lo fai bastare e te lo culli in grembo, se sei una abituata agli sghignazzi degli uomini quando cammini per strada, ai loro sguardi schifati pieni di scherno.

D’accordo, stronzi, non sono una bellezza, non posso farci niente e andate a farvi fottere!

Poi il rampollo dei Kowalczyk ha smesso di attraversare la strada, salire quattro piani e bussare alla porta. Ha trovato qualcosa di più comodo: l’ho visto dalla finestra di mamma sul suo balcone, un pomeriggio alle sei, insieme a una donna, anche bellina. Cantavano qualcosa, abbracciati.

Sono contenta per lui.

No, non è vero.

Non sono contenta per nessuno.

Due anni fa ho lasciato il lavoro per prendermi cura della mamma. Era un lavoro di merda in una ditta di pulizie, ma almeno ci permetteva di andare avanti con appena un briciolo in più di decenza. Ora ci arrangiamo con la misera pensione di lei, neanche cinquecento euro per sfangare il mese. Tremo al pensiero di quando non potrò contare nemmeno su quella. Sarò costretta a trovarmi di nuovo un lavoro, ma chissà se avrò lo spirito necessario. Il coraggio. Dovessi farlo adesso proprio non ci riuscirei, sicuro.

Mi sento sempre più persa. Vuota.

Una delle novità di questo ”confinamento” che mi avvilisce fino a farmi star male è la fila davanti al supermercato vicino casa: non posso fuggire né sprofondare sottoterra, devo restare lì davanti agli occhi di tutti, occhi che scrutano e giudicano, solo per prendere una bottiglia d’acqua, un pezzo di pane e poco altro. Quando esco con la mia misera busta dietro a chi spinge carrelli stracolmi quale può essere il mio stato d’animo? Come faccio a non provare vergogna, a essere fiera di me?

L’unica cosa che mi viene da fare è correre veloce a rintanarmi in casa.

La mamma, costretta nel letto troppo grande, non mi è di molta compagnia almeno da un paio di settimane, da quando le sue condizioni si sono aggravate. Peggiora sempre di più e io mi intristisco fino alle lacrime nel pensare che non ne avrà ancora per molto.

Continuo a lavarla, a pulire la sua merda e il suo piscio, devo farlo, ma non sono neanche sicura che lei se ne accorga. Nemmeno più un sorriso, una carezza sulla guancia con la mano che sembra foderata di carta vetrata, un «Grazie cara» appena udibile.

Per fortuna mangia sempre di meno: niente dentro e niente fuori, quindi la pulizia del suo culo rin­secchito non è necessaria tutti i giorni. Lo faccio volentieri, per carità, ma quando posso astenermi è una boccata di ossigeno.

Ecco, l’ho detto.

Giudicatemi pure una brutta persona, se vi fa sentire migliori di me. Appena l’avrete fatto, andate di filato a prenderlo nel culo.

Venerdì è venuto il padrone di casa a reclamare l’affitto. Il famoso signor Boschi, uno stronzo di prima grandezza. Siamo indietro di tre mesi e secondo lui non può più aspettare oltre, capisci anche tu, di questi tempi, bla bla bla. Non ha varcato neanche la soglia. Mi è passato in testa di dirgli se magari poteva farmi uno sconto in cambio di un lavoretto, sono brava, ho fatto pratica con mister Kowalczyk, ma non ho saputo come mettere le carte in tavola. Certo non potevo spararglielo direttamente in faccia così, senza pudore. Alla fine sono riuscita a strappargli un’altra proroga, fino al giorno della pensione, mentre lui arricciava il naso sempre più schifato. Ho pensato fosse per me, mi aveva sorpresa scarmigliata e vestita sciatta, da casa, ma poi ha sbottato: «Cristo, ma cos’è questa puzza?»

Sono stata pronta di spirito, per una volta, e gli ho risposto: «Il frigorifero si è rotto all’improvviso. C’era della carne.»

L’ha bevuta.

Mi ha consigliato di farlo aggiustare e in pratica è fuggito via. Mentre si allontanava ha continuato a borbottare, sono riuscita a captare cose tipo: «Ma come fa quel rospo a vivere in quelle condizioni?»

Vorrei vedere lui.

E poi a me la puzza non dà fastidio.

Sono andata alle Poste a prendere la pensione di mamma.

Anche lì la solita coda, vecchi bavosi che se possibile sono ancora peggio dei giovani, leggo sulle loro facce apprezzamenti che mi fanno ribrezzo, desideri laidi di animali impotenti, pronti ad azzan­nare e lacerare qualsiasi preda, se non possono averla in altro modo.

Sono così affamati che si accontenterebbero anche di me, come bottino.

L’impiegato carino mi ha chiesto, gentile come al solito: «Come sta la signora?» Lo fa ogni mese, da quando vado io a riscuotere, sempre evitando di guardarmi per più di un secondo. I suoi begli occhi nocciola in cui galleggiano pagliuzze dorate scivolano su di me ma non trovano niente su cui soffermarsi. Niente di piacevole, almeno.

Per un attimo avrei voluto cascarci dentro, a quegli occhi, arrendermi, confessare come sta sul serio ”la signora” e farla finita: è nel suo letto, immobile, sempre più magra, con le ossa della faccia che cominciano a venire fuori mentre la pelle ingrigisce e si ritira, le labbra che scompaiono per mostrare i denti in un ghigno eterno.

È stato solo un momento di sconforto, poi gli ho rifilato la risposta standard: «Resiste».

Come me.

Al ritorno mi sono fermata dai cinesi e ho speso una piccola fortuna in candele profumate. Però mi servono, quell’escremento di cane di Boschi tornerà domani e non posso permettermi che senta di nuovo la puzza. Ho capito che non basta aver sigillato la camera come meglio ho potuto, col nastro adesivo da imballaggio, né tenere le finestre spalancate, il tanfo si fa strada subdolo, prima o poi impregnerà ogni cosa.

Io mi ci sono abituata, anzi non potrei farne a meno, è l’unica mia compagnia, l’unica cosa che mi rimane della mamma.

L’odore del suo corpo in putrefazione.