Racconto di Carmelo Modica

(Terza pubblicazione – 9 febbraio 2021)

 

Lo sguardo abbandonato, ancora sotto l’effetto della carbocaina, Gandolfo Lucifora tornava dal dentista come se un lutto gli avesse improvvisamente tramutato la vita. Quel giorno aveva persino dimenticato le olive inciurate e il bicchierino di insolia che si regalava la mattina di ogni santo giorno dal giorno in cui era andato in pensione. Provare quella pena dell’anima, ché quella del fisico gli era stata fortunatamente sedata, non doveva essere per lui una cosa esagerata malgrado quello fosse l’unico molare marcito nel tempo senza dare né segni premonitori né preavvisi allarmanti.

“Poi ne mettiamo uno nuovo, compare Gandolfo, non ti prendere pena!” – gli andava ripetendo Giovannuzzo che, oltre a essere il suo dentista di fiducia, gli era pure nipote, da parte di sua moglie Lavinia, e compare per aver battezzato il figlio cui era piombato addosso il destino di chiamarsi Giovannuzzo Junior. A questa scelta Gandolfo si muzzicava le mani. E a qualunque tentativo di prendere il discorso per convincere Giovannuzzo padre a scegliere diversamente veniva magistralmente disarmato da onirici sofismi per cui da quel giorno tutti i figli maschi, e i figli dei suoi figli, avrebbero dovuto chiamarsi Giovannuzzo. E quando il capo di quella fortunata genìa guardava un non precisato punto davanti a sé, gli occhi persi nel vuoto e tutto l’essere avvinghiato al piacere che il suo nome si sarebbe protratto nei secoli, Gandolfo – stringendo un morso vuoto – si arrendeva rassegnato.

“Lasciamo stare, Lavinia! – diceva alla moglie – Non c’è cosa peggiore che far ragionare un cretino. E per giunta laureato!”

Mentre Gandolfo se ne tornava a casa, ignorando chiunque gli chiedeva come andassero le cose, silenziosamente malediceva chi aveva organizzato quell’anno la festa patronale che, peraltro, non si faceva da anni. Giusto giusto ora che si era tolto un dente e chissà a quanti problemi sarebbe andato incontro! Le luminarie blu, bianche, rosse, le bancarelle pronte a essere scoperte dalle cerate sui marciapiedi di fronte alla banca e alla farmacia, la chiusura delle strade che raccoglieva un’infinita coda di macchine sulla via principale – ideale proseguimento della statale –  mentre il paese  garantiva coi suoi giusti tempi ‘a passiata d’u Santu, tutto questo – pensava Gandolfo – tributava a tutti gli abitanti il diritto di non farsi i fatti propri: tutti erano disponibili e sempre pronti, tra uno scaccio e l’altro,  a regalare un sorriso agli altri. Rabbrividiva Gandolfo al pensiero che questo sarebbe durato una settimana.

“Una settimana intera! Ci devo dire a Giovannuzzo che la prossima volta dobbiamo guardare bene il calendario”. Questo pensiero, tuttavia, lo intristì ancora di più. Non tanto perché doveva fare in modo che nessuno venisse a sapere delle sue cure odontoiatriche, piuttosto perché metteva in conto, senza volerlo, che forse a una certa età i problemi ai denti arrivano. Non lo consolava di certo il pensiero che, dopotutto, era normale.

L’unica alla quale Gandolfo riservò un saluto fu Maria Pia Albanese. Per due motivi: il primo perché aveva raggiunto 98 anni di età, di cui sessanta di onorato servizio ostetrico, e meritava ora il riposo – per quanto in apparenza rincoglionito – su una sedia a rotelle davanti al suo catoio. Secondo, perché tutte le volte che passava Gandolfo, Maria Pia si emozionava e una lacrima le scendeva dritto dritto sul volto bruno ed essiccato come una foglia di tabacco e che poi si perdeva nell’intricato fitto di mani blu, di un fazzoletto polveroso di carta e di un rosario più antico di lei.

La nipote, che non lavorava (faccio la sarta, diceva) ma raccoglieva la questua in chiesa, raccontava che piangeva “come una madonna, non sempre ma ogni tanto sì, che purtroppo miracoli non ne fa”. Una volta che Gandolfo le sentì dire una cosa del genere le rivolse uno sguardo a denti stretti e disse che era un miracolo che la nonna fosse viva e che lei avesse la delega a ritirare la pensione alle poste altrimenti avrebbe fatto la fame ché non le sarebbero bastati quei quattro rammendi che, a ogni morte di papa, faceva paese paese.

Gandolfo arrivò a casa sudato e povero di gaie intenzioni. Un ragazzino che giocava con un monopattino approntato con due assi di legno e i ruotini recuperati da un ferravecchio lo apostrofò con una faccia incarognita:

“Mastro Mùzzica arrivò, prrrrrrr!”

***

Tanti anni prima, prima che una malattia professionale avesse cambiato il corso delle cose, Lavinia aveva fatto la cantante lirica. Era occhialuta e malgrado la sua mole vichinga e coriacea (aveva persino cantato nelle opere di Wagner!) il suo modo di fare era quello di una donnina esile come un giunco. Aveva, tuttavia, stando alle dicerie, la sensibilità di un coccodrillo affamato e il temperamento di un lottatore di sumo che le era valso, tra le chiacchiere degli addetti ai lavori del Teatro Massimo ma anche tra quelle più carezzevolmente salaci del foyer, il nomignolo di Signorina Rotterweiler. Lavinia era a conoscenza delle dicerie sul suo conto a teatro e ora anche in paese e se l’era sempre presa poiché lei aveva sempre portato a spasso, acculato a un ù braccio scintillante di paillettes, un chihuahua dolcissimo per quanto avesse sempre i denti di fuori. Nel corso degli anni si era convinta che l’asportazione delle corde vocali fosse stato un bene: non avrebbe incontrato Gandolfo se non fosse stata costretta ad abbandonare la carriera. Adesso Lavinia aveva una vocina lieve lieve che sembrava sfiatasse da un tubicino di cristallo. Non era poi lontana dalla realtà, la cosa. Le avevano ricostruito le corde vocali con una tecnica nuova, importata in Italia da un medico australiano che un giorno si era inventato di prelevare uno straccio di carne da un gluteo che aveva modellato a forma di due noci sovrapposte con l’ausilio di sottili lamelle in vetroresina. L’intervento in via sperimentale fu avallato a suo tempo dalla collaborazione di una équipe assemblata a Melbourne e inviata al centro di autotrapianti di Palermo.

La prima volta che Gandolfo ebbe modo di vedere la voragine butterata del culetto bianco di Lavinia ebbe il timore che qualcuno lo avesse preceduto nell’assalto di quella parte del corpo che il Lucifora non aveva ancora sperimentato: aveva morso i colli, i seni, le orecchie e persino i piedi di mezzo paese. Quando conobbe Lavinia, però, fu attanagliato dalla furia dettata da una competizione che non aveva motivo di esistere e che procurarono alla giovane fidanzata una serie di lividi fino a quando, rigorosamente dopo il matrimonio, Gandolfo pareggiò le simmetrie del deretano di Lavinia. All’inizio il futuro emotivo della giovane moglie fu incerto e traballante come la postura che assumeva tutte le volte che stava seduta e che le procurò non pochi dispiaceri in paese che – sebbene per anni avesse bandito le feste patronali, non si sa come, non si sa perché – sapeva sempre tutto di tutti.

Col tempo Lavinia capì che quello era il modo, tutto di suo marito e di nessun altro, di manifestarle il suo amore, un’adorazione carnale che aveva un che di mistico e finì con l’apprezzarne le irruenze a tal punto da avere paura di sé e delle pretese della propria sensualità.

Non era ancora mezzogiorno, Lavinia aveva preparato le olive inciurate e il vino. Si chiese se non fosse il caso di evitare nelle condizioni in cui versava Gandolfo. Già da giorni si portava appresso quel lutto preannunciato, scoperto improvvisamente al regolare controllo dei denti. Ora che poi Giovannuzzo il dente glielo avrebbe tolto…

“Ma non mi fa male” aveva detto Gandolfo a Giovannuzzo tentando di salvare il dente.

Come se avesse letto nella sua testa, Giovannuzzo aveva replicato calcando bene su certe parole:

“Non ti preoccupare, compare. Potrai continuare a mangiare quello che mangiavi prima. Magari qualche giorno di riguardo, poi lo rimettiamo nuovo e non ti accorgerai di averlo perso.”

Mentre saliva le scale Gandolfo, nell’ingenuità tipica del paziente che sembra dover affrontare il supplizio più crudele del mondo, pensò a Lavinia. Pensò che forse l’avrebbe delusa. Doveva mettere in conto una cosa del genere nella vecchiaia. Era stata una fortuna che fino a poco tempo prima avesse conservato intatti i suoi denti. Lavinia sentì il portone che veniva richiuso lentamente, quasi ad accompagnare con dolcezza l’incastro del cilindro al telaio della parete. Aprì la porta di casa, per un attimo indecisa se lasciare aperto l’uscio ma poi arrivò la consapevolezza che il suo beneamato Lohengrin, il chihuahua che l’aveva accompagnato per anni, non c’era più. Un incedere lento per le scale. La sorprese che non ci fosse neanche l’eco.

Immaginava Lavinia che ora sarebbe iniziato il dramma e si era già studiata la parte perché né Gandolfo avesse a risentirne né lei, già pronta a governare le proprie voglie.

***

Per fortuna che erano tornati i tempi di sempre! Nessun santo da onorare, nessuna festa da garantire ai paesani, la pretesa che i propri scheletri rimangono ben conservati nell’armadio meglio di quanto facessero i cappuccini alle catacombe con i loro intrugli speziati. Sorrideva Gandolfo Lucifora a denti scoperti, rinvigorito dal nuovo posticcio che Giovannuzzo gli aveva avvitato, in tutto simile agli altri suoi denti. Sorrideva e camminava come un qualche ministro della Repubblica, le mani in tasca, il petto in fuori e il canino ancora una volta lustro e fiero, araldo di una fanteria più agguerrita del solito.

La traversata del viale principale non passò inosservata. Qualcuno a denti stretti mormorava che forse le tenaglie del Lucifora avessero acchiappato carni più giovani. Niente di tutto questo. Lo sapeva Gandolfo e lo sapeva Lavinia che era tornata a indossare il grembiule in cucina sopra la gonna sola. Senza neanche la fodera per facilitare l’approdo di Gandolfo.

Al passaggio del Lucifora, che le tributò un saluto con una carezza e un bacio, Maria Pia Albanese tornò a piangere. Nessuno in paese aveva mai saputo né sarebbe mai successo in futuro (ma lo diciamo col beneficio del dubbio), cosa passasse per la testa della Albanese quando vedeva Gandolfo:

 

‘Stu picciriddu, voglia ‘u Signuruzzu beddu, sarà comunque felice.

Povira matri: muristi nel partu mentre to’ figghio ancora suca dalla minna.

Prima o poi finisci ‘u latti, picciriddu beddu.

Taliàtela, bianca come ‘a luna. I capiddi vagnati di suduri nto cuscinu, ‘a testa vutata.

Beddu picciriddu, Gandolfu ti vosi chiamari to’ matri prima di morriri, suca finchè puoi ca già ‘a vita si fici accanusciri.

Suca ca ‘u latti finisci.

Finìu ‘u latti! Mùzzica, beddu nichittu, mùzzica dda minna!

Ancora nenti hai vistu. Mùzzica fino a quannu diventa nivura. Mùzzica finu a quannu ‘a vita nun t’arriri.

 

Un’altra lacrima dell’Albanese; l’ultima che lui asciugò con una mano e una carezza sfuggita senza consapevolezza, quella che suggellò ancora una volta il segreto tra la vecchia e Gandolfo che avrebbe continuato a muzzicare ancora per tanto tempo.