Di Barbara Gaiardoni

(Prima pubblicazione – 12 febbraio 2021)

 

 

Non so se scriverti servirà per fare chiarezza, certamente la scrittura è per me un modo per capire.

Scrivere m’ induce a viaggiare, a non rimanere ferma negli istanti presenti in cui ci è concesso di sperimentare la vita e le sue durezze. Sfilare con la penna sullo spazio bianco inganna il momento e le sue tirannie; intuire un cammino in grado di oltrepassare la linea del tempo, forse, è quanto ci è concesso per rievocare il buono che c’è in noi. Perché ogni giorno dobbiamo tenere ciò che ci solleva e lasciare andare ciò che ci angustia, affinché si ritiri e rimanga là, in fondo, lontano, in uno spazio silente e inafferrabile al punto che non ci appartiene più. Solo l’inganno affascinante della memoria può intravedere ciò che è rimasto laggiù e che gli appartiene. Ma in fondo il nostro passato, nel momento in cui è andato, ci è estraneo come un continente che abbiamo visitato e poi ci siamo lasciati dietro le spalle, per sempre. È giusto ritornare ai suoi miraggi? E poi, come ritornare?

La via che ci separa dal passato è da percorrere con molti mezzi tutti da scoprire.

È fatta d’acqua, dobbiamo imparare le sue leggi. Brucia come il fuoco, dobbiamo sopportare la sua splendida ma dolorosa natura. Sfugge come l’aria, dove dolci fantasmi danzano, scherzano, ridono, ripetendo per sempre quelle azioni, pronunciando solo quella parola, giocando perpetuamente ad essere solo quelli che abbiamo conosciuto. Ti guardano sempre e solo con occhi grandi. Non so dire la prima volta che mi hanno guardata, né la prima volta che io ho guardato i loro.

Questi inizi avvengono nella nostra costante distrazione…quante volte s’incomincia nell’inconsapevolezza. Non ci è stato dato di conoscere l’inizio: soprattutto quello della nostra vita avvolto nella tiepida eco di un’acqua che se ne andrà, nella quale non rientreremo più.

Il problema non è che tutto scorre. Il problema è che non sappiamo quale punto del mare è stato il “nostro”. Vediamo le sorelle dell’onda, ma non di quell’onda in cui siamo stati. Quale delle sue infinite ci avrà accolti e portati? Un giorno, il suo seno confortevole dal colore del cielo e dell’erba, fremente come la vibrazione di un’ala, cadde come le piume di un uccello appena nato. Ci ha avvolti e cresciuti in quel tempo necessario perché la vita continuasse a palpitare, anche dopo l’abbandono. E poi ci ha lasciati sulla terra, sul bagnasciuga. Ma dell’inizio nulla sappiamo. Il primo attimo ci è sconosciuto, non potremo mai ascoltare il primo tuffo del cuore nel sangue che ci alimenta. Questo ci manca, questo crea il nostro timore e la nostra ricerca.

Nasciamo e la nascita è già una costrizione ad abbandonare, a lasciare in un momento di decisione che è dolore.

Non so perché in questa mattina di tarda primavera mi sono arresa ai ricordi. Forse, perché il passato non rimane mai al suo posto, soprattutto quando il presente richiede una segregazione forzata. Si agita, ci raggiunge, ci fa lo sgambetto, ci sorprende. In un suono, in un colore, in un profumo, in una parola si condensa e ritorna.

Tutto ciò, che senso ha? Per ora diciamo che è un miraggio o forse è come l’acqua piena di sapone. Basta un piccolo alito per scatenare una tempesta di bolle leggere fosforescenti che esplodono dentro come polvere di una meteora.