Racconto di Cesare Sandoni

(Prima pubblicazione – 10 giugno 2020)

 

Ci sono luoghi di confine che sembrano immaginari, magici e invece  ti offrono la possibilità di camminarci sopra, di incrociare gente, di sentire il brusio della vita che scorre. Ci sono luoghi che mentre li cammini ti sembra di stare a svolazzare su aquiloni di vento tanto ti senti leggero e meravigliosamente inconsistente, ti sembra di staccarti dalla vita che hai lasciato indietro, al di là della pianura in un’altra città. Ci sono luoghi che sembrano talmente inverosimili che pensi di stare improvvisamente in una vita diversa e come un sasso lanciato butti via le amarezze, i problemi e ti metti in pace ad osservare, sospeso su un momento di rara bellezza, ingoiando tutte le sensazioni. Ci sono luoghi che quando li cammini diventi quel luogo, ti portano a sentire da dentro le increspature della pelle passare nella luce degli occhi, in un viaggio da dentro a fuori, in andata e ritorno e sentire tutto, le bassi luci di un chiaro scuro, i tavolini all’aperto e le atmosfere delle cene, le irregolarità dei marciapiedi, le schiene dei ponti, il cielo ombrato di blu notte, il passaggio della vita di molti. Ci sono luoghi che mentre li cammini ne fai miracolosamente parte, come se quel luogo senza di te non fosse lo stesso, come se quel luogo avesse bisogno di te per essere luogo. Ci sono luoghi a metà, tra mare e terra, tra città e campagna, luoghi che sfumano tra essere una cosa e un’altra, che sfuggono ad una definizione, talmente a metà da risultare di nessuno, solo di stessi ed essere talmente ospitali da risultare di tutti e tutti insieme accolti in un quadro che vive, si muove, si anima e scorre, cambia volto e scenario e pare un canale e le sue acque intrappolate, perennemente increspate e fresche e luccicanti che seguono il corso della corrente. Ci sono luoghi che se ci capiti sai che ci tornerai. Ci sono luoghi che sono immortali perché si depositano dentro e si fissano alle pareti della memoria.

L’ho raggiunta un mercoledì sera. Dentro la stanza dell’albergo mi ha accolto nuda, in una postura un po’ rannicchiata perché un po’ non se lo aspettava che fossi già arrivato. I capelli raccolti e fissati con due bastoncini incrociati. Di lato il rumore deciso dello scorrere dell’acqua. Ci siamo infilati subito nella grande vasca con l’acqua a pochi centimetri dalla tracimazione. Abbiamo riso, abbiamo steso le gambe, ci siamo accarezzati, ci siamo dati baci subacquei, abbiamo fatto l’amore. Ci siamo rilassati, io appoggiato al bordo e lei appoggiata su di me. Leggera, con la sua pelle bianca, quasi privata di materia.

Ora camminiamo nell’aria gentile delle nove di sera. La zona dei Navigli non è Milano, non è la Milano che ti aspetti. La Milano del traffico, la Milano rumorosa, la Milano che corre, la Milano del tg, la Milano che lavora, la Milano fredda fumosa, la Milano brillante effervescente, la Milano intraprendente, la Milano liquorosa vivace, la Milano nervosa nuvolosa, la Milano redditizia, la Milano dei palazzoni grigi, la Milano dei milanesi. La zona dei Navigli è la Milano di nessuno perché è un po’ di tutti, la Milano che esce da Milano, fuori porta, extraurbana e un po’ marittima, una Milano diversa dentro Milano. La zona dei Navigli è divisa in due da un lungo canale, quello che percorro controcorrente con lei al braccio. Mi sento meravigliosamente perso dentro un’atmosfera libertina, affiatato con i suoi passi lieti, preso dentro un pacioso via vai di un felice fine aprile. Le parole mi sono uscite liquide come l’acqua intrappolata nel canale. L’acqua che scorre e si porta via la temperatura, lo spazio e il tempo, le voci, la sera. Le parole mi sono uscite come una nenia che si ripete, come lo scorrere del tempo, dato che è più di un anno che l’amo e che l’amo di più di un anno fa. L’amo di un amore che si allaga, si espande, sproporzionato come il panorama di uno spazio senza coste, senza sponde, senza cornici. Che sia chiaro a lei, alla sua vita, a Modena, al mondo che l’amo, con tutto me stesso e me la porto via. Che sia chiaro anche ai Navigli, a questa Milano che non è Milano, al canale, alle acque intrappolate, increspate e fresche e luccicanti, ai ponti, alle passeggiate, alle luci, alla sera di fine aprile, ai bar e ai ristoranti, alle insegne, ai tavolini, alle persone che incrocio, alla sera che si fa bella dentro un vestito blu notte. Che sia chiaro che l’amo come un’ortica in un pugno, come un masso che spacca, come un odore che si attacca, come una consolazione, come un fremito, come gli occhi di un lupo che guardano le stelle.

La zona dei Navigli è Milano senza esserlo. E’ la Milano di passaggio, quella vacanziera che non vuole assomigliarsi. E’ divertente, spassosa, romantica. Su un ponte ci sono tappeti di foglietti di carta scritti e canali di poesia. Sul centro del ponte la bacio, guardando in fondo a destra lo specchio scuro dell’acqua e guardando in fondo a sinistra il penetrare delle acque sullo sfondo che sfuma nello scuro. Mi sento al centro di un passaggio, di un paesaggio lacustre e di mezzo, al centro dell’universo protetto nell’arietta dalle braccia di lei che mi raccolgono i fianchi e la schiena. La zona dei Navigli adotta amori, è perfetta per serate come questa e ha il pregio di risultare indimenticabile. E’ giocosa, portuale, pittoresca, truccata di sere di primavera. Andiamo e ridiamo come scemi. Non siamo nessuno in un luogo di nessuno. Fuori porta, fuori portata, fuori bordo, fuori città. Fuori da tutto ciò che ci aspetta. In esilio, lontani e immaginari e occasionali sognatori ci troviamo ad essere. Felici di una felicità indescrivibile.

Passeggiamo nella brezza. Ci guardiamo attorno per cercare un ristorante. Ne passiamo diversi in rassegna, guardando la gente cenare, cercando di intuire se il ristorante ne vale la pena. Leggiamo i menu esposti. Me la tengo stretta, non ci penso nemmeno un secondo sui Navigli di una sera puntinata di luci romantiche a lasciare la presa. Siamo sconosciuti, siamo innamorati, siamo perfettamente inseriti lungo il corso degli eventi.

Mi fisso sullo spazio all’aperto di un ristorante. Mi accorgo di essere guardato, o forse la gente ci guarda. Anzi è probabile che tutti guardino lei, perché lei è bella davvero. Indossa un vestito nero attillato, a schiena seminuda, con uno spacco dietro. Le scarpe altissime. I capelli sciolti, lunghissimi, neri. Porta gli occhiali, a montatura nera, grandi. Cammina come una Dea, l’amo molto anche per come cammina. E’ una donna senza tempo, starebbe bene in ogni epoca. Trasmette una definita immagine di donna, che oltrepassa ogni ristretta etichetta. Credo che vederla significhi porsi delle domande. Incuriosisce all’istante, è seducente senza strafare, è attraente in modi diversi da diverse angolazioni da risultare terribilmente affascinante, è fertile di idee, combattiva e lo si vede da come cammina, forte e valorosa, divina nelle movenze, multietnica come un concerto un po’ hippy, gli occhi sempre happy, l’anima rock, l’energia smisuratamente punk, il cuore maledettamente romantico, è qualificata reattiva pronta sveglia, curiosa e brillante, è letterale grammaticale romanzesca strafatta di classico, è diversa perché non passa inosservata, gioca d’ironia con sapienza, è variegata e varicolori, brilla di un’intelligenza rara viva pura, è espressiva, teatrale dentro, è fatta di sensualità elegante, travolge, spacca, ha cura, c’è, è presenza, è premurosa, spassosa, è virtuosa, attenta e tollerante, unica. E’ speciale. E’ mia. Non ci crederà nessuno, ma queste sono molte risposte alle domande che chi la sta guardando si pone su di lei. Anche per questo me la tengo stretta, non ci penso nemmeno un secondo sui Navigli di una sera puntinata di luci romantiche a lasciare la presa.

C’è un’insegna blu e davanti una piccola piazzetta apparecchiata, contornata da grandi vasi dentro i quali spumeggiano piante verdissime e ornamentali. Ci piace l’idea di quel luogo. Fuori non c’è posto. Entriamo. Anche qui abbiamo gli occhi addosso. Quindi è certo che guardino lei, con tutta la coda di domande senza risposta.
Ci sistemiamo in un piccolo tavolino riparato addossato ad un antico muro in pietra. Dominano luci rossastre, volutamente attenuate per riscaldare l’ambiente. Accendo la candela del tavolo. Ci guardiamo fissi ed io lo so, me ne accorgo che lei ha occhi speciali. Sorridono sempre. Sono sempre speciali i suoi occhi, me li guardo e sto bene, sono felice di guardarli. Stasera sono speciali, come ieri, ma hanno un qualcosa di speciale più di ieri. Sono rilassati, accoglienti, luminosi, come ieri, ma hanno un qualcosa di speciale più di ieri. Ci penso e non mi do risposte. Se la amo come ieri, se gli occhi sono quelli di ieri, perché hanno un qualcosa di speciale più di ieri? Non so rispondere e a volte non trovare una risposta è un bene. Se non ci sono risposte significa ritrovarsi piccoli davanti allo stupore. Significa solo riconoscere lo stupore. Ecco, i suoi occhi sono così,  pieni del mio stupore.

Ecco vedi, in una serata come questa, seduto in un ristorante a lume di candela principescamente invecchiato nei muri di pietra, con piatti neri di ardesia, con la scossa dei suoi occhi nei circuiti elettrizzati della mia mente, con la mia mano che ricopre a sessantanove la sua, con lo sguardo che prova in anticipo il piacere del dopo mentre fissa la sua sfrontata scollatura, in un luogo inverosimile come questo, giustificato ad esistere principalmente per chi come me è innamorato da sentirsi drogato di lei ogni giorno, strafatto del suo corpo e di come lo muove, incantato dalle sue parole in campi flegrei di distese di papaveri rossi, con l’anima volata via e non ti so nemmeno dire dove si è cacciata tanto ha imparato a volare, io mi sento il campione del mondo di felicità. La cosa strana è che gli umani presenti, tipo il cameriere impettito di farfallina, l’omaccione barbuto del tavolo a fianco, la signora in ceralacca con orecchini anni venti di fronte, non lo sanno. Non lo sanno i tanti occhi che girano la sala. Lo so io, forse lo intuisce lei. Mentre lo sanno i calici e il buon vino bianco che frigge dentro, lo sa la saliera e la pianta ad ampie foglie verdi che troneggia dietro di lei, lo sa la sedia che mi regge perché sente la febbre della mia temperatura, lo sa il pavimento in cotto veronese e il piatto a base di polipo grigliato in mix di verdure che mi sto gustando. L’attorno immobile lo sa. Chi ha vita non può credere a tanta felicità, pertanto non lo sa, non lo immagina. Ecco vedi, in questo momento mi laureo campione del mondo di felicità. In fondo non ci vuole molto. Gli ingredienti sono una donna straordinaria, terribilmente sexy che amo come mai ho amato, un ristorante a lume di candela, un luogo inverosimile come questo, giustificato ad esistere principalmente per chi come me è innamorato da sentirsi drogato di lei ogni giorno, strafatto del suo corpo e di come lo muove.

Ce ne usciamo un po’ brilli. Lei cammina ora un po’ incerta, ben puntellata sul mio fianco, con il braccio a giro schiena. Si affida all’uomo sbagliato perché pure io ho un andatura a zig zag. Però nell’insieme ci compensiamo e andiamo con passi in fase, con la brezza ora più forte che a volte ci piega in direzione laterale, guarda caso di fronte ad una vetrina di boutique donna. Lei commenta un abito, io commento nel pensiero il suo, minimale a pelle, e non vedo l’ora di essere in camera per tirarglielo su. Lo spacco audace dietro aiuta ad immaginare. Lo trovo in sintonia con le mie intenzioni e con quello che sono. In fondo fare l’amore è sempre diverso. Dipende come si è in quel momento e come si è dipende spesso dalla giornata trascorsa e in senso più lato in che vita si è. Dato che sono il campione del mondo di felicità e circola buon vino bianco nelle vene, il fare l’amore lo sento un po’ cruento e spiccio, tre passi in camera, la porta che sbatte, la gonna sollevata, contro un muro. Senza indugi, con decisione, senza preamboli, diritto come un cingolato che spacca. Insomma l’amore che sbatte.

La salita al ponte è più difficoltosa. Al centro però è impossibile non baciarla in un luogo così romantico da risultare simmetrico di magia. Il canale sulla destra scava la sua profondità sino a fondersi nelle luci in fondo della darsena, a sinistra si fa inghiottire nel buio della notte. E’ già mezzanotte e il bacio ha il sapore della fine e dell’inizio. E’ bello come il primo bacio e ha la pretesa di essere ricordato come l’ultimo di un periodo sofferto che ci ha visto clandestini d’amore, ora che ci sentiamo al via di una nuova vita. Perché è pur vero che i Navigli sono il luogo inverosimile della nostra luna di miele, perché è pur vero che stanotte dormiremo finalmente insieme.

In camera mi dimentico tutti i pensieri immaginati poco prima. I  fumi dell’alcool fanno nebbia sulle intenzioni. Lei si pianta davanti allo specchio a parete, sapientemente mi mostra la schiena. E’ un segnale, sa come fare. Forse mi ha letto nel pensiero, meglio, mi conosce molto bene. Prendo tempo, lo spacco mi chiama, anzi mi sorride, mi fa così col dito, mi sfida in duello, ma non c’è fretta. La testa mi gira un bel po’, centrifuga le idee in un approccio slogato. Senza dire nulla lei si stende sul letto pancia in giù. Appoggia un fianco del viso sul cuscino. L’amore che sbatte è tramontato per colpa della mia scarsa reattività. Colpa di quel buon vino, però era proprio buono. Una donna non va mai fatta aspettare. Nel troppo attendere poi decide lei. Mi butto sul letto. L’abbraccio. Si lascia abbracciare. Ci lasciamo abbracciare sfiniti. Non c’è di più. Solo la voglia di sfinirsi così, l’uno nelle braccia dell’altra. Lentamente ci spogliamo buttando i vestiti come viene. La camera è diventata improvvisamente una culla.

La luce dell’esterno che filtra dalle tapparelle ci vede coi corpi avvinghiati attorcigliati ingarbugliati, imbottiti di noi con gli occhi chiusi. L’amore che sbatte è uscito dalla porta sbattendo la porta. In questo momento tutto, le risate, i gesti, gli sguardi, i baci e gli abbracci, l’immaginazione del dopo, l’idea di fare l’amore, ciò che ci siamo detti si ricolloca nel suo casellario, tutto è fermo, tutto rivive nella pace di sentirla mia, sentirmi suo, tutto è messo da parte in attesa del ripetersi, tutto è sospeso in un troppo pieno che mi fa sentire perfetto, compiuto nel posto giusto, al suo fianco, addosso a lei e non ho bisogno di nulla.

La prima notte in luna di miele ci siamo addormentati così. Leggeri come la brezza dei Navigli che alla finestra sbatte curiosa e ci scruta. Vede lei col viso a metà sul petto dell’uomo campione del mondo di felicità. E prima di raggiungerla dove si è già involata trafiggo l’ultima stella. Un pensiero. Penso che innamorarsi sia come uno scoppio, tipo una fucilata, un fuoco d’artificio, mentre amarsi è un basso e profondo rumore di fondo, simile al rumore della terra nell’incavo delle caverne. Innamorarsi è un volo verso l’alto, sempre più su, amarsi è stare su e continuare a volare variando ogni tanto la quota del volo. Innamorarsi è irragionevole e non rispetta le leggi dell’universo, amarsi è matematica pura, peccato che ci vogliano ripetute prove e a volte non basta una vita per imparare le formule. Però mi sento pronto. Con lei, per lei sono pronto. E lo dico da uomo innamorato che ama profondamente la sua donna, disgustosamente come dice lei, mostruosamente come dico io.

Nei Navigli l’acqua scorre sempre. Perennemente c’è acqua che scorre. Da secoli e per i prossimi secoli. Sempre e per sempre. Non ha importanza se faccia freddo, se non piova da un mese, se ci sia la carestia o una guerra tremenda. L’acqua scorre. Alimenta, monta su sé stessa, porta vita, conduce, insegna la via verso altra acqua che scorre, alimenta conduce, porta via sino al mare. In una catena continua. Senza interruzioni. Così è l’amore. L’amore si riproduce, cresce su sé stesso. Così è l’amore. Così pensa l’uomo campione del mondo di felicità, con la sua donna che gli fiata beata addosso nel cioccolato fondente della notte.