Racconto di Roberta Recchia

(prima pubblicazione – 22 giugno 2020)

 

Aveva convinzione che per lei sarebbe stato difficile divenire quel che desiderava essere, incarnando aspettative e attese che non riusciva in quel momento a corrispondere. Sentiva lo spazio tra sé e sua madre una strana sistemazione di distanze e altezze, mentre si sentiva ripetere che nuotava controcorrente, con quel tono deciso e la mano agitata come rigida bacchetta di un direttore d’orchestra che avrebbe generato una sicura cacofonia.

Forse era colpa dei suoi ormoni impazziti, di quelle strane fette di prosciutto davanti agli occhi, di frasi dette e ridette, che da un orecchio le entravano per poi perdersi in qualche assurdo meandro tra i suoi pensieri.

Mia e sua madre erano da qualche tempo quotidiane protagoniste di un ping pong di parole audaci che fuoriuscivano dalla bocca di una quindicenne come uno tsunami inatteso, sommergendo ogni leale intenzione educativa, ogni tentativo di tregua familiare.

Alla fine si chiudevano tra sé e sé, con sensi di colpa e dubbi generazionali e i silenzi pesavano come anche gli sguardi mancati. L’amore non poteva essere surrogato e caricatura di sentimenti, insipida melassa di buone intenzioni, false verità e rispetti.

Mia si trascinava da una stanza all’altra della casa con le sue orme pesanti come solcassero terreni aridi di paure e insicurezze. Con la coda dell’occhio riusciva a percepire lo sguardo stanco di sua madre, le scie di lacrime finissime che tentava di celare dietro canzoni strampalate canticchiate nel preparare da mangiare.

Non è che non si accorgesse dei suoi sbalzi d’umore, o che non vi fosse una qualche verità dietro le intenzioni di quella donna di mezza età. La guardava con la coscienza di chi ricopriva un ruolo importante nella sua vita e sarebbe potuta divenire rifugio di segrete confidenze nell’ascoltare le sue vicissitudini. Aveva coscienza che vita è quella che dipinge e colora le cose grigie, indefinite e rimandate, ridonandogli colori più intensi e non poteva continuare a crogiolarsi su quel divano, ove tutto quel pensare appariva come solitudine abissale.

Esiste sempre un momento zero, nel quale anche le relazioni familiari appaiono nude, perché a soffrire molto spesso non è il corpo ma il cuore e il dolore è il non senso. La crescita è una sfida, un’avventura, non un tiro al piattello, robetta da poco. Nei suoi momenti di ‘lucidità’ percepiva l’amorevolezza, la parsimonia, il senso di cura. Quello che avrebbe desiderato spiegare alla donna che l’aveva messa al mondo era la sua fragilità, il senso di fallimento e impotenza, che nel distacco generazionale poteva essere pur sempre recuperabile. Sua madre era di quelle acqua e sapone, senza optional, dalla forza semplice che affrontava ingiustizie, che con saggezza e umanità accoglieva, incoraggiava, comprendeva, pur in un corpo testimone di un tempo che scorreva troppo in fretta.

Lei non si sentiva solo la Mia brufolosa e strafottente, condottiera di una battaglia senz’armi, di una lotta senza senso, protagonista di un gruppo di mutuo soccorso di sopravvivenza. In lei, la necessità di poter anche litigare e il bisogno di poterlo fare con sua madre, perché in fondo era certa che l’amasse e capisse. Era come camminare su una corda tesa senza reti di sicurezza, con la certezza che non l’avrebbe mai lasciata cadere. In lei la tensione del desiderio di divenire adulta e la nostalgia di non essere più bambina, dolcemente capita senza sconti e compromessi.

Come ogni tempesta si sarebbe placata anche questa e tra le luci e ombre avrebbe insegnato a entrambe a passare attraverso sentimenti contrastanti. Con buon senso e una certa misura nell’agire, con occhi spalancati e mente aperta, avrebbe coltivato quella diligenza e preziosa arte della leggerezza che vedeva in sua madre. Quello in cui viveva era il meraviglioso e contraddittorio universo dell’adolescenza,  tinto con colori sbiaditi e senza mezze misure, con ostinati silenzi o dialoghi serrati, desiderio di libertà e confusione  per l’avvenire.

In fondo desiderava abbracciare ancora i fianchi sottili di sua madre, come confini di terre che allontanavano paure e la conducevano dalle lacrime al riso, dalla rabbia al conforto. Anche le nubi si disfano e rendono leggere e vaganti le cose, fanno battere con sentimento il cuore e con ardente pazienza e convinzione del comprendersi nelle difficoltà e nelle ferite, avrebbe ridisegnato tra loro tracce di umanità, con aria amabile.

Come viandante tra linee camaleontiche e caotiche avrebbe fatto dei suoi scarabocchi, una musica tutta da riscrivere.

Insieme.