Racconto di IsDead

(prima pubblicazione – 17 giugno 2020)

 

È una di quelle notti che in giro non ci trovi nessuno, solo ombre e fantasmi, qualche animale affamato che si attarda e nasconde se stesso, che non ci tiene a diventare un boccone succulento, ulula contro un nemico immaginario, gioca alla guerra. Poi c’è il vento che ti è sempre stato ostile, caldo e secco, che porta odore di olio motore ché quello di morte è passato da un pezzo. Il mare è un’enorme piscina, denso di idrocarburi, vacue fiammelle verdognole di rame scoppiano sulle onde, e sono ricordi sintetici di lucciole. Ti fermi a guardarle, indugi, solo un secondo deve essere l’attesa di un tempo che non ti torna. Questa è la regola che ti sei dato, nessun pensiero malinconico, non te lo puoi permettere, tiri oltre.

Te ne vai in giro con la testa incassata fra spalle troppo strette per reggerne il peso, con gli occhi che, ogni tanto, guardano indietro. Nessuno ti segue, avanzi il passo, hai una vecchia canzone che ti balla nella mente, offuscata e confusa, di quando eri un poppante, e vorresti cantarla di nuovo. La musica ti ha sempre calmato. Le parole escono ovattate dalla tua bocca e non chiedono il permesso, e suonano strane, come se stessi masticando un sasso:

“Five little ducks, went out one day, Over the hill, and far away.”

Magari il vento porta via anche questa, insieme alle altre, e sarebbe come una parte di te che si stacca per andare lontano dove nessun altro possa trovarla.

Zygmunt il pazzo è una macchia scura che appare al primo fulmine, il rumore del tuono fa assenza e stranamente ti manca che quasi non ti sembra vera. Pare che ti stia aspettando, che tu sia l’ultimo cliente e poi via, in quel cubo di due metri quadrati che avete imparato a chiamare casa.

Gli arrivi a un passo soltanto, che lui si agita ed è tutto un  fremito, appena ti guarda. Forse non ha nemmeno il coraggio di farlo. I suoi occhi sono palle di vetro senza luce, il volto una maschera distorta di bocca larga cui mancano i denti. Accessori inutili per un mondo che non ha niente più da offrire.

“Quanta ne hai,” gli chiedi che quasi non ti sente.

“Tu quanta ne vuoi”, sibila e ti dà le spalle.

“Ne voglio tutta”.

“Tutta non è possibile”.

“Allora quanto basta per sapere com’era”.

“Due dosi, questo posso darti. Una volta provato, bada, potresti abituarti e… meglio non farlo”.

Zygmunt il pazzo allunga una mano di unghie lunghe e sporche che sembrano artigli. Ti frughi le tasche, hai le ultime gocce del tuo sangue in una boccetta di policarbonato che sembra un diamante.

Lo scambio avviene in silenzio che solo il mare ha ancora il diritto di far sentire il suo lamento. Abbassi lo sguardo, il tempo di voltare la faccia e Zygmunt scompare, forse se l’è portato il vento, pensi. C’è la notte che ti avvolge e sei solo, anche se mille occhi ti osservano, lo sai bene, quasi ci speri, se affondassi in questa sabbia soffice che sembra non avere la forza di reggerti, forse, qualcuno verrebbe a salvarti. Una parte di te ci crede ancora.

Intanto ti rimetti in cammino con lo sguardo che cerca le stelle. Ma le nubi che intasano il cielo sono una cortina di fumo troppo spessa che neanche il sole ci passa attraverso.

Le scarpe strisciano, le gambe sono deboli, fragili aste di legno,  raschiano la pietra e fanno uno strano rumore, devi stare molto attento. Cani feroci fiutano l’odore della pelle, strane figure filiformi vagano fra le ombre. Ordine e disciplina, ne è passato del tempo, che a quest’ora dovresti stare fra le tue cose e dormire, di un sonno senza sogni, a occhi aperti e respiri regolari e luci spente.

Paranoia ti prende, forse qualcuno ti segue, forse sei tu che lo vorresti, forse è solo la paura, quella ce l’hai sempre. Sali la collina di cose vecchie, fuochi fatui in lontananza, un’esplosione in cielo, qualche goccia d’acqua ti bagna la faccia.

Esausto, così ti senti, che ti scoppia la testa, la gola secca, la lingua brucia come il ricordo dell’ultima sigaretta.

 

Il condominio è un alveare di ferro e cemento, una prigione da cui puoi scappare ogni volta che vuoi, tanto intorno non c’è niente, non si può fuggire da un posto che non esiste. Lo sai bene, desisti.

Sali le scale che sono grigie, il corridoio è pervaso da uno stano odore di fuliggine che ti attacca il naso e punge come se fosse uno spillo. Silenzio, solo suoni ovattati di porte che scivolano, rumore sinistro, l’onda sonora arriva e taglia come la lama di un temperino, ti copri le orecchie.

La porta del cubo si apre e ti sembra ancora più stretto, come un vecchio vestito infeltrito, un bozzolo che ti tiene asfissiato fino a farti scoppiare all’interno. La luce si spegne, come sempre a quest’ora di un giorno senza sole, la porta si chiude ermetica alla tue spalle, il freddo cala ed è veloce, pesante, resistere sotto coperte termiche e sperare, solo questo puoi fare. Il cubo è una scatola che ti mangia e ti salva e sei solo in questo piccolo, castrante mondo di angoli retti. Solo i tuoi occhi spuntano oltre le coperte, gli unici capaci di scappare via, eccentrici, attraversano le finestre di vetri spessi oltre i quali trovi lei che c’è sempre, ogni volta che la cerchi. Tornare a casa  con il pensiero di rubarne l’immagine di specchio è rassicurante per te. Linee curve di morbida carne, capelli corti di un colore strano, metallico, quasi bianco. Occhi di un nero di notte, pieni di infinito, di confini che non esistono.

Sai che per lei non esisti, che sei solo uno dei tanti che guardano e che non hanno il coraggio di incontrarla in quella dimensione sospesa che è sogno e sensazioni di chimica menzogna, l’unico modo rimasto di fare all’amore.

Ma tu hai sfidato le bestie meccaniche, i controllori filiformi, il cielo che vomita acido, il freddo che gela il sangue di liquido antirefrigerante per quelle due bustine di godimento liquido.

Ce le hai fra le dita, gommose di gelatina che si scioglie a poco a poco per il calore residuo delle tue mani. L’ago è una spada sottile che trafigge vene dure come la plastica dei fili elettrici, pochi lembi di pelle ancora liberi da buchi di flebo per tenerti ancora vivo. È così che trovi il coraggio ché il desiderio di sapere cosa si prova a essere vivo è più forte della paura dell’ignoto, del fascino perverso e disturbante della scoperta.

Quando la roba comincia a scorrere capisci che cosa voglio dire. Non potevi saperlo, ha ragione Zygmunt, corri il pericolo di non riuscire starne senza.

La porta della mente si apre e metti piede, per la prima volta nella tua inutile vita, in un mondo sospeso fatto di niente. Ti senti leggero, eppure ancorato alla terra. Spazio, tempo, liquido, così diventi e scorri dentro a un fiume in piena. Una sensazione che non riesci a descrivere, sei scomposto in mille piccolissimi pezzi di te e non ti fa niente.

Una luce, quella di una stella, caldo sulle labbra, questo provi ma dura un attimo. Sei in un mondo sintetico di colori e profumo di candela che brucia.

Lei è seduta su di una poltrona che è soffice e non bada a te, ha cose più importante da fare con le mani, cerchi concentrici fra le sue gambe, mille espressioni di godimento sulla faccia tesa di mille plastiche. Le scivoli sopra, è un attimo, calore del suo respiro che è profondo e sa di buono. Morbido corpo di centinaia di anni passati in una polverosa cantina, graffi di unghie e morsi che strappano la carne, le sei dentro, non duri abbastanza, esplodi che ti manca l’aria e ti sembra morire. La prima volta è così per tutti.

Questo è l’infinito, il senza confini, dove tempo e spazio non hanno senso, nessun significato. Esisti solo nella tua mente, in una chimica di ormoni e sensazioni che puoi comandare a piacimento, essere oltre il vetro, oltre il cubo, oltre il mondo stesso, esserle dentro. Capisci che è solo un incidente, un difetto strumentale di un tutto che procede per tentativi abortivi e qualche sparuto successo. Dio getta i dadi, consapevole della perdita di tempo. Se tu morissi, se tu finissi in un’esplosione orgasmica di vacuo piacere, che ne sarebbe di te, del tuo mondo artefatto? Continueresti a crederci per forza? Esisti fino a quando decidi di farlo, adesso lo hai capito e hai davvero paura che tutto possa finire in una bolla di pensieri.

E allora chiedine ancora che Zygmunt scappa, continua a farlo da sempre. La droga liquida, quell’amore evanescente che a tutto dà un fottutissimo senso.

Ti ha fregato il vecchio pazzo ché ti ha fatto capire quanto è bello, come un comune spacciatore da strapazzo.

Ora che sei sveglio e ti trovi bagnato sotto le coperte che di termico non hanno niente, sei ancora più solo, con l’ultima dose fra le mani e quella voglia di buttarti di nuovo dentro, la paura che cresce allo stesso tempo, quella di quando una cosa finisce e poi sai che non torna mai.

Allora spalanchi gli occhi e pensi a Zygmunt, a come trovarlo, a cosa dargli in cambio.

Ma Zygmunt ti ha fregato, solo che ancora non lo sai.