Racconto di Liliana Vastano

(Nona pubblicazione)

 

 

Mi chiamo Margherita e ho diciassette anni. Ero l’unica figlia di Valeria e Maurizio, lei architetto, lui magistrato e abitavo a Posillipo, il quartiere più bello di Napoli. Dalla mia stanza vedevo il mare, sentivo il suo odore, udivo il rumore delle onde e sognavo. Sognavo un futuro da étoile: grandi teatri, applausi, fiori, lo Schiaccianoci, Giselle…Studiavo danza classica alla scuola del San Carlo da quando avevo cinque anni. Ero un’allieva molto disciplinata, attenta, scrupolosa, non mi perdevo una lezione. Madame Charlotte era fiera di me! Alle lezioni mi accompagnavano i nonni che abitavano nella dependance della villa di famiglia, i miei genitori non avrebbero mai potuto a causa degli impegni di lavoro che si protraevano fino al tardo pomeriggio. Mamma e papà assecondavano molto questa mia passione e nei week end invernali eravamo sempre in giro per l’Italia per assistere a spettacoli di danza classica. Eravamo una famiglia felice e a me il futuro sembrava sereno e appagante. Un temporale estivo, violento come solo i temporali estivi sanno essere, si portò via papà. Stava tornando a casa in moto dopo il lavoro e, per evitare una grossa buca che gli era apparsa all’improvviso in una curva, sbandò e andò a sbattere contro un lampione. Non ci fu niente da fare. Nulla fu più come prima: cambiò la mia vita, quella di mia madre, quella dei miei nonni che lasciarono la dependance e si trasferirono da noi. Dopo un periodo buio e lacerante, pian piano, cercammo tutti di riprendere in mano le nostre vite ma l’assenza di papà si faceva sentire e pesava come un macigno. Mamma non sorrideva più, si sforzava di mostrarsi serena con me ma era evidente che soffriva. Passarono così alcuni anni e nel frattempo io, che non avevo mai smesso danzare, avevo ultimato le scuole medie, mi ero iscritta al liceo ed avevo anche un fidanzatino, Gerry. Ero cresciuta, assomigliavo sempre di più a mia madre, sottile e bruna, avevo gli occhi verdi di mio padre. Verso la fine del secondo anno di liceo cominciai a notare in mia madre degli impercettibili cambiamenti. La vedevo con i lineamenti più distesi, meno silenziosa, con una strana luce negli occhi. Nel giro di qualche mese era quasi tornata come ai tempi di papà ed aveva anche rinnovato il taglio di capelli. Cominciò ad avere improrogabili impegni di lavoro anche di sabato ed urgenti sopralluoghi nelle ville da restaurare fuori zona, sempre di sabato. Era chiaro che nella sua vita era successo qualcosa, anche i nonni lo avevano capito! Una mattina di ottobre di quello stesso anno, un provvidenziale guasto alla sua automobile fece sì che un tipo di nome Giovanni arrivasse alle sette e trenta del mattino nella nostra casa e nelle nostre vite. Giovanni era un collega di studio di mamma, architetto come lei, un po’ più giovane, alto, bruno, calabrese di Crotone. Dopo deludenti esperienze lavorative nella sua città, da qualche anno si era trasferito a Napoli. Aveva lavorato in piccoli studi poi, finalmente, era arrivata la sua grande occasione in uno studio di prestigio qual era quello di mamma e così si erano conosciuti. Inutile raccontarvi come vanno queste cose, vi dico solo che mamma si era presa i suoi tempi prima di farlo conoscere a me e ai nonni. Pian piano, Giovanni divenne una presenza abituale ma non invadente nella nostra vita familiare. Il sabato si fermava a pranzo da noi, la sera usciva con mamma e la riaccompagnava dopo mezzanotte. Ritornava la domenica a pranzo o soltanto nel pomeriggio. Io e i miei nonni eravamo molto contenti per mamma e Giovanni aveva fatto a tutti e tre una buona impressione. Era un po’ schivo, poco loquace ma questo può anche essere un pregio, dipende dai punti di vista. Nei miei confronti era premuroso quanto basta, mi chiedeva della scuola, della danza ed anche di Gerry. Dopo Natale io intensificai le prove di danza in vista del “passo d’addio” che sarebbe avvenuto a fine giugno, e incominciai anche a toccare con mano quello che sarebbe stato il mio futuro di ballerina, non solo scarpette e tutù ma anche rinunce e fatica, tanta fatica! Madame Charlotte, infatti, mi aveva proposto per qualche sostituzione nel corpo di ballo del San Carlo ed io mi ero comportata egregiamente. In questo periodo, dopo aver un po’ riflettuto, avevo lasciato anche Gerry. Era diventato insofferente e mi faceva pesare il fatto che io avessi poco tempo da dedicare a noi. Era diventato anche molto possessivo e questo io non lo tolleravo. A Pasqua fummo tutti invitati nella casa di montagna di Giovanni a Camigliatello Silano, per una conoscenza “ufficiale” delle due famiglie. I nonni, per discrezione, non vollero muoversi da Napoli, andammo solo io e mamma. L’esame-famiglia andò bene e, quando tornammo a casa, mamma era più serena e decisa anche a fare qualche lavoretto in villa per renderla più accogliente in vista dell’estate. Era dai tempi di papà che non si toccava nulla e la salsedine, si sa, corrode. Mamma, inoltre, decise anche di sistemare e mettere in sicurezza i gradini che portavano alla piccola darsena dove un tempo era ormeggiato un gozzo. Il tempo fino a giugno volò tra studio, palestra, prove del balletto, scelta del tutù. La mamma condivideva la mia ansia e le mie emozioni, così come i nonni, anche Giovanni faceva la sua parte. Il mio passo d’addio andò benissimo, ebbi tanti applausi, fiori, baci, abbracci. Mamma era radiosa ed io altrettanto: il primo tassello del mio futuro era stato sistemato. Il giorno seguente lo trascorremmo a commentare l’accaduto e a rilassarci un po’. Giovanni era particolarmente gasato e mi rivolgeva attenzioni come mai prima di allora e la cosa mi creò qualche disagio. Verso sera, mamma accompagnò in auto i nonni a casa di amici per una cena di compleanno, sarebbe tornata nel giro di una mezz’ora. Appena rimanemmo da soli nella villa, vidi Giovanni cambiare tono ed espressione: divenne arrogante e aggressivo e mi disse esplicitamente che era venuto il momento di mettere da parte sorrisi e moine e di festeggiare a modo suo il mio successo. Non ebbi nemmeno il tempo di replicare che mi ritrovai sbattuta sul pavimento, con lui sopra di me che ansimava. Le sue mani frugavano dappertutto, mi strappò la camicia, incominciò ad armeggiare con i jeans per abbassarli, arrivò agli slip. Io urlavo, lo supplicavo di lasciarmi andare ma nessuno poteva aiutarmi, eravamo soli. Approfittando di un suo momento di debolezza, mi divincolai, lo colpii al viso e scappai. Non so perché il mare mi sembrò l’unica via di salvezza: corsi verso il terrazzo e iniziai a scendere le scalette che portavano alla piccola darsena.  Mi sentivo il suo fiato sul collo perciò, presa dalla paura e dalla forte emozione, saltai un gradino e mi ritrovai giù. Non mi sarei più rialzata, avevo sbattuto la testa e gli scogli me l’avevano devastata. Lui arrivò dopo un po’, io già me ne stavo andando. Confuso, smarrito, terrorizzato pensò bene di farmi sparire. Mi gettò in mare, nel mio mare, il mare della Gaiola che mi conosceva da bambina e che aveva cullato tutti i miei sogni. Si affrettò a chiamare i soccorsi, raccontò l’accaduto a modo suo ma la sua ricostruzione dei fatti faceva acqua da tutte le parti. Nessuno gli credette e fu arrestato subito, anche se si finse confuso, disperato, del tutto estraneo all’incidente che mi era capitato. Il mare del golfo di Napoli mi restituì ai miei affetti qualche giorno dopo. Il mio corpo fu ritrovato sulla spiaggia di Seiano. L’ultima immagine che ho della mia presenza nel vostro mondo è una bara bianca con due scarpette rosa poggiate sopra, quelle del passo d’addio. Non avrei mai immaginato che quelle scarpette che avrebbero dovuto segnare l’inizio della mia vita di artista avrebbero suggellato la fine di tutti i miei sogni.