Racconto di Maddalena Sterpetti

(Prima pubblicazione – 9 gennaio 2019)

 

Con l’ansia attanagliata addosso. Usciva di casa.

Aveva un uomo da sentire, da amare soprattutto, quell’uomo che a lei aveva toccato l’anima con la forza di un uragano.

Si era detta più volte, scendendo le scale, lascia andare, non è poco avere dai giorni

di un viaggio che si dissolve come i raggi del sole al tramonto, un amore così,

unico, assoluto, tremendo, ma speciale.

Tienilo.

Trattienilo.

Più volte al suo cuore impazzito aveva sussurrato parole di quiete cercando di farlo frenare.

Non fare sogni o pazze e assurde illusione.

Resta ancorato al solo bisogno che ora hai di questi sussulti di emozioni purissime,

di questo tremare d’amore.

Lui la sapeva ascoltare ma non di quelli che solo annuiscono, no,

lui le solleticava la mente ogni volta la sfidava ad andare oltre i tanti pensieri che poteva formare.

Quell’oltre, era dato dal meglio di lei, lui ascoltava e lei creava sé stessa.

Creava le tante immagini che più non sapeva di avere.

Una sé stessa con foto che aveva scordato nel vecchio album della quotidiana realtà.

Poi finalmente varcava la soglia, un luogo sconosciuto agli occhi ma noto, anzi vissuto già dal suo spirito, una soglia fatta di attese lunghe, protratte dai modi che a volte il destino ha. Mette grossi quesiti, mette pali che trafiggono e si ergono come palizzate.

Le sicurezze già sicure e certe.

Ma varcava la soglia e pensava di avere tutto sotto controllo, sicura di riuscire a non pensare più a nulla nemmeno al dolore che dietro si portava, attaccato alla schiena

come uno zaino prezioso da proteggere dai furti o da cadute accidentali.

E il passo, oltre la soglia era di sfida. A quel destino.

Ti posso domare paura, si raccontava, ti posso buttare in un secchio per mai più riprenderti.

Lui l’abbracciava e le sorrideva e ogni cosa, ogni più piccola cosa in quel preciso attimo tornava al suo posto.

La felicità per prima.

La voglia di amare per seconda.

Il bisogno di respirare quel sentimento per terza.

E giù all’infinito uno dopo l’altro tutto il mondo di un uomo e una donna

che da sempre si tengono mano nella mano.

Ora era arrivata. Ora restava.

Lì in quello spazio racchiuso, era un cerchio creato da lei e da lui.

In pace con sé stessa da lui si lasciava spogliare;

in realtà si sentiva già nuda al primo sguardo che lui le aveva dolcemente posato sul viso esattamente tra gli occhi e le labbra.

Era la sua anima che abbandonava tutto per farsi vestire solo dai respiri di infinito che lui le soffiava addosso.

E poi c’era solo la sete di lei.

E la fame e la sete di lui.

Occhi negli occhi si davano amore, occhi negli occhi si toglievano tutto.

Il dolore.

Lo spazio che li aveva separati.

Le lacrime.

Il grigio ammassarsi dei giorni divisi,

le tante parole a dirsi ti voglio, a volte gridate con la rabbia nel cuore e con la vita che lenta o veloce su loro scorreva.

Si toglievano quel tutto perché fin lì  quel tutto li aveva annientati e scalfirlo dalle loro anime era quello che di più istintivo sapevano fare.

Era tornare a respirare.

Poi sembravano forse voler darsi dei limiti, che però non avevano.

Lo avevano scoperto la prima volta che si erano amati, perché si erano concessi

senza capire quella cosa con cui si sfamavano. C’erano di mezzo sogni, emozioni e  passioni, carezze condivise con la distanza di mezzo. C’erano di mezzo i tanti fili d’acciaio che li tenevano uniti, erano vincoli. Vincoli che si erano attorcigliati alle loro anime.

Perciò ora si davano l’uno all’altra come a voler confermare a sé stessi, che sì, non avevano compreso quel troppo, sì quel troppo che si era impossessato di entrambi, però lo volevano.

Braccia e labbra.

Gambe e capelli.

Pelle con pelle.

Spostavano i cuori per farli arrivare ai confini di quell’amore

Lui per primo li aveva tracciati e con occhi sgranati e incantati si apprestava a camminarci su per lasciarci un’impronta e per dire a lei con la potenza di una voce che brama e con la stessa forza che ha quel primo passo che va verso una meta da sempre ambita.

Io sono qui, le dichiarava, su questo confine, ci resterò finché, io su di te e tu su di me,

non smetteremo di farci sentiero.

Un unico sentiero.

Era quella infatti la grandezza, erano nati simili, forse uguali, una strada tracciata, e se lo erano confessato, ma una vita li aveva straziati; lui nell’anima e poi nel corpo; lei nel corpo e poi nell’anima.

Scostando ora di lato il dolore avevano fatto l’amore con i corpi, le anime erano rimaste su quel sentiero dove ogni sasso era il tanto o il tutto che li avvicinava.

Le loro anime li avrebbero raggiunti più tardi, durante la notte quando nell’intreccio di braccia si sarebbero allontanati dal mondo per dormire.

Per dormire e dimenticare l’impossibile fato.

Sì l’avrebbero scordato, tolto dal cuore, ma non l’insperato aversi e non la mano che aveva accostato la vita di lei alla vita di lui.

Avrebbero scordato quasi tutto.

Ma non l’appartenersi.