Recensione di Ramona Lacorte

(seconda pubblicazione – 7 agosto 2020)

 

 

Quell’anno non morì nessuno. Nessuno prosperò. Non ci furono nascite né matrimoni. Vennero scritte diciassette satire rispettose, sovvertendo uno stereotipo e, presumibilmente, creando un genere. Era un sogno, naturalmente, ma molte delle cose più importanti, secondo me, s’imparano nel sonno. La conversazione, il tennis, la musica, lo sci, le buone maniere, l’amore: ci provi da sveglia, magari esiti a buttarti, ed è fatta. Ne hai preso il ritmo una volta per sempre di notte, mentre dormivi.”

Mai ci eravamo annoiati, all’anagrafe Speedboat, è stato pubblicato nel 1976 negli Stati Uniti. In Italia fece la sua apparizione solo nel 1983. Di queste 189 pagine si è parlato pochissimo per più di quaranta anni. L’ autrice Renata Adler è nata a Milano nel 1983, ma a causa delle leggi razziali si trasferì ancora bambina con i genitori nel Connecticut. Dopo la laurea ad Harvard in Filosofia e Letteratura intraprende la sua carriera da giornalista, insegnante e scrittrice. Viaggia, sperimenta, osserva. Diventa una delle più stimate e influenti firme del New Yorker. Di cosa scrive la Adler? Di tutto. Dalla critica letteraria, alla cronaca giudiziaria alla guerra in Vietnam, una vita sempre in prima linea. Senza paura. E solo una donna senza paura poteva scrivere un libro come Speedboat. La trama è essenziale, così essenziale da non esserci. I sette capitoli non seguono una linea logica né cronologica. La protagonista, Jen Fain (ovviamente alterego della Adler) è una giovane giornalista dello Standard Evening Sun arrivata a New York dalla provincia racconta episodi della sua vita che si intrecciano con eventi storici, scandali, piccoli drammi quotidiani, guerre, matrimoni, ginocchia sbucciate. Potreste leggere dello scandalo Watergate e il rigo dopo di lei che prende lezioni per migliorare il rovescio. Incontrerete personaggi e potreste non rivederli più, oppure rivederli comparire dal nulla dopo svariate pagine quando vi eravate totalmente dimenticati della loro esistenza in questo mondo. Tutto è disconnesso, veloce, confuso. La Adler in questa sua prima opera si dimostra una seducente e acuta decifratrice di arabeschi umani.  Gli spaccati di società che descrive nella città che non dorme mai, restano pressoché immutati ancora oggi. Sarà questo il motivo per cui l’opera è tornata a far discutere gli ambienti Newyorkesi e a ricevere finalmente gli onori che ha sempre meritato. Nonostante la semplicità del linguaggio, non è un libro di facile lettura, richiede tempo perché bisogna prendere il ritmo del narratore, donna estremamente brillante, cervellotica e confusionaria.

L’ intelligenza radicale in posizione moderata è l’unico posto dove il centro regge. Almeno così sembra”.

Dal camping estivo alle foreste equatoriali, da un’isola Italiana alle aule universitarie, dai salotti degli artisti intellettuali Newyorkesi a una pensione con la moquette e la carta da parati di Venezia. Speedboat è il viaggio nelle difficoltà di essere una giovane, donna, indipendente e incosciente in un mondo ancora dominato da uomini. Non si parla mai di amore. Si, esistono anche donne che scrivono libri senza raccontarci una storia d’amore. Sarebbe stata banale, e la banalità non appartiene all’iconica lunga treccia bionda di capelli arruffati.

“Arrivati al rifugio, ci siamo infilati le racchette da neve. Dopo dieci passi ho creduto di non farcela. Con gli sci è andata peggio. Con grande sforzo sono riuscita a mantenere uno spazzaneve lento e tremolante, ricordo d’ infanzia, spostandomi di qua e di là sulla montagna, goffa, spaventata dai bolidi che mi passavano accanto, infreddolita. «Non ti farai male, sai» ha detto uno degli atleti, come se mi stesse fornendo un’informazione utile, «se punti gli sci a valle».”

Metà diario segreto, metà storytelling, libro per sé stessa, e per pubblico di “eletti” (superfluo appare il domandarsi perché venne accolto tiepidamente).  Senza riferimenti storici, senza aver vissuto una parte di quelle esperienze in prima persona, senza sentire un po’ di Renata dentro di sé il lettore più superficiale non riuscirebbe a proseguire in quella giungla di input. Nessuno aveva mai scritto nulla del genere, forse neanche lo aveva immaginato, lei lo ha fatto con una semplicità in alcuni tratti lapidaria, come quando ti racconta di quella volta in cui si trovava in Egitto per lavoro, dopo aver visitato le piramidi il suo volo di ritorno per il Cairo venne requisito dal gruppo del “tour nove giorni in Terra Santa” diretto a Anaheim. Disperata e in lacrime, si sedette in cabina di pilotaggio con le due guide e il pilota. Il giorno scoppio’ la guerra. Ogni punto non chiude il periodo, serve da trampolino per una riflessione lasciata alla discrezionalità del lettore, che immerso in quei voli pindarici si lascia trascinare rapito dal ritmo. Fino all’ultimo capoverso, in cui questa folle corsa si arresta col botto. Oggi lei e la sua lunga treccia scrivono ancora per il New Yorker, non si sono fermate un attimo, e no!  Mai si sono annoiate.

“…ho vissuto diverse vite e alcune le vivo ancora.”