Racconto di Antonella Parisi

(Prima pubblicazione – 29 ottobre 2020)

 

 

Si respirava un’aria diversa da qualche giorno, da quando si sapeva che la guerra era finita. Per le strade la gente si abbracciava, cantava, era felice di ritrovarsi nuovamente insieme. Io, Antonella, avevo da poco compiuto diciotto anni, ma la maggior parte della mia adolescenza l’avevo trascorsa nei rifugi, a nascondermi tra le braccia di mia sorella Vittoria, così da attutire il sibilo delle bombe. Vittoria aveva soltanto tre anni più di me, ma la guerra ci aveva fatto crescere in fretta, eravamo decisamente più mature dei nostri anni. Ci univa lo stesso sguardo spaurito, tante erano state le sofferenze e le privazioni che avevamo sopportato. Il ritorno alla vita normale appariva come un miraggio, stentavamo a credere che la guerra fosse finita davvero, tanto che non riuscivamo ancora a riprendere la nostra quotidianità, le abitudini di sempre, anche le semplici passeggiate. L’unico pensiero per noi ragazzi era ritrovarsi in piazza, scoprire se mancava qualcuno all’appello, perché magari rimasto a casa ferito. Non riuscivo ancora a dormire serenamente, i soliti incubi ricorrenti mi facevano compagnia tutte le notti. Da pochi giorni, però, mi svegliava l’odore del pane appena sfornato. Proveniva dal panificio di Michele, vicino casa, che aveva ripreso la sua attività da qualche settimana. Era un profumo quasi dimenticato che per me sapeva di libertà. Più di tutto, però, mi era mancata la musica. Negli anni della guerra, infatti, alla radio si ascoltavano soltanto bollettini dal fronte, ma con la venuta dei soldati americani, cominciavo a sentire le note di canzoni allegre. Erano ritmi mai sentiti prima, che invitavano a ballare. Man mano che passavano i mesi, mi tornavano in mente i giochi che facevamo in strada con cose semplici, io, mia sorella Vittoria, con le sorelle Franchi, Orietta e Gemma e l’amica Maria. Uno di questi era il gioco con i sacchi. Correvamo lungo il Viale che portava al belvedere con tutta la nostra forza, mentre la brezza pungente sul volto ci faceva lacrimare gli occhi. Nel mio paese il vento da sempre era considerato un amico, un suono familiare che scandiva le ore della giornata sia d’estate che d’inverno. Iniziava lento, per rinforzare deciso alla sera, scuotendo le foglie, sibilando negli spazi aperti, facendo vibrare i vetri come ali d’uccello in gabbia. Nelle giornate subito dopo la liberazione anche quel gioco tanto innocente, non ci interessava più, non riusciva a scuoterci dal torpore in cui vivevamo. Forse ci sembrava infantile, ormai ci sentivamo piccole donne. Io però, ero sempre stata una ragazza allegra, positiva, socievole e volevo cancellare quei ricordi per riprendere in mano la mia vita, prima che passasse velocemente anche la giovinezza, come era stato per l’adolescenza. Mi ero data come primo obiettivo quello di tornare a scuola, prendere il diploma e lasciarmi tutto alle spalle. Mi dicevo sempre: “sono ancora viva e questa fortuna non può essere sprecata”. Avevo interrotto la scuola al terzo anno del liceo classico e dovevo riprendere da lì. Le materie che preferivo erano quelle umanistiche, soprattutto la filosofia. Quell’anno molti di noi si ritrovarono seduti negli stessi banchi che avevano lasciato frettolosamente all’inizio della guerra: la classe terza del liceo classico “Giordano Bruno”, sezione A. In classe eravamo venti alunni quasi tutti ragazzi e poche ragazze. Le ragazze allora, preferivano imparare un mestiere, aiutare in casa, occuparsi dei fratelli più piccoli. Anche mia sorella Vittoria scelse di andare a bottega da una sarta, per imparare l’arte del cucito e del ricamo. Avevamo ambizioni diverse io e Vittoria, ma ciò non ci impediva di condividere interessi e amicizie, di sentirci profondamente unite, in questo la guerra aveva contribuito moltissimo. Il nostro motto era: “unite per sempre, anche se la vita ci terrà distanti”. L’anno scolastico procedeva, ma la ripresa era lenta, avevamo perso l’abitudine allo studio, tuttavia il bisogno di tornare alla normalità era più forte di tutto. La domenica ci incontravamo a passeggio per le vie del centro, un dolcetto veloce prima di pranzo, un po’ di chiacchiere tra amiche e qualche occhiata timida sul giovanotto che catturava la nostra attenzione. Cominciavamo a scambiarci le prime confidenze sentimentali, con un pudore quasi fanciullesco, lo stesso che ci faceva arrossire al primo approccio con l’altro sesso. Ora che avevamo tutte quasi vent’anni ci sentivamo a disagio, in quei frangenti, quasi inadeguate. Eppure, qualcuna di noi più precoce aveva già stabilito chi corteggiare, perché i ragazzi andavano incoraggiati, non brillavano per iniziativa. Intanto che l’anno scolastico procedeva era arrivato il Natale. La prima vera festa dopo la guerra. Finalmente si vedevano le luminarie per le strade, gli alberi addobbati, le vetrine con le casette del presepe e i pastorelli. Tutto sapeva di tradizione e di ritorno alla vita semplice, alle feste condivise. In previsione del 25 dicembre, a casa mia, come in tante altre, si cominciavano a preparare i dolci almeno una settimana prima. Ricordo la mamma e la nonna affaccendate nei preparativi, che ripetevano a noi ragazze: “state lontane dalla cucina, perché abbiamo da fare e non possiamo perdere tempo”. A casa mia, poi, la notte di Capodanno era una festa doppia, il mio papà festeggiava il compleanno, rigorosamente dieci minuti dopo la mezzanotte e voleva che si rispettassero quei minuti, come aveva sempre fatto la sua mamma, la nonna Anna. Quanta allegria era ritornata nella mia famiglia che quasi stentavo a credere potesse durare, perché lo spettro della guerra era ancora troppo recente! Quell’anno i miei genitori riuscirono pure a farci trovare qualche regalino sotto l’albero, niente di particolare, ma era un segnale ben augurale di una tradizione antica ripresa, al punto che io e mia sorella eravamo in ansia come delle bimbe in attesa di Babbo Natale. Dopo l’Epifania riprese la scuola come sempre. L’appuntamento al belvedere per la gara dei sacchi fu fissato per la settimana successiva alla chiusura dell’anno scolastico. Per noi quella gara non era importante per la coppa messa in palio, quanto perché rappresentava la normalità, la gioia di condividere un momento spensierato. Parallelamente alla scuola avevo iniziato a frequentare la redazione di un piccolo giornale locale. Io di solito affiancavo il correttore di bozze, è stato anche grazie a lui che migliorai la mia scrittura, il mio lessico e riuscii persino ad evitare qualche incertezza nell’ortografia che mi trascinavo da tempo. Ero affascinata dalla cronaca nera, non sapevo spiegare il perché, ma l’idea di andare sul luogo del misfatto, veder fare fotografie, ascoltare le testimonianze dei presenti, osservare i loro comportamenti, mi incuriosiva. Andavo al giornale due volte settimana, il mercoledì e il sabato, e in poco tempo diventai amica di tutti, soprattutto di Carlo, giovane cronista che si occupava di sport, di qualche anno più grande di me, che aveva cominciato a corteggiarmi con timida cautela temendo un mio secco rifiuto. Man mano che passavano i mesi, diventavamo più confidenti, fino a quando, in primavera la nostra bella amicizia sfociò in un sentimento più profondo. Galeotta fu una festa in maschera, dove fummo invitati. Io indossavo l’abito di una popolana, lui quello di un pastore. Per quella festa avevamo noleggiato vecchi abiti di scena, un po’ consumati, da una sarta che aveva lavorato in teatro. La nostra storia d’amore all’inizio fu un fuoco di passione, almeno per me che non avevo avuto ancora esperienze, l’impatto emotivo fu sconvolgente. Carlo era sempre premuroso, mi colmava di attenzioni: fiori, cioccolatini, regali. Io per parte mia ero affascinata da tante premure, anche se non sapevo ancora capire se si trattasse di amore o di una forma di possesso. Un primo dubbio lo ho avuto quando, prima della fine dell’anno scolastico, la mia scuola organizzò una gita scolastica, appena pochi chilometri fuori dal paese. Carlo subito palesò il suo disappunto, che riusciva a stento a nascondere. La reazione fu così esagerata che stentai a riconoscere il Carlo di cui mi ero innamorata. Intanto non rinunciai alla gita, ma avevo una forte perplessità su come sarebbe stata la sua reazione rivedendomi. Apparentemente non sembrava contrariato, ma decisi ugualmente di rallentare i nostri incontri per osservare i suoi comportamenti, in modo da non sentirmi troppo coinvolta e affrontare volta per volta le situazioni nuove tenendo presente come misura di paragone la sua reazione precedente. Non tardò a palesare la sua gelosia per un motivo, almeno per me, decisamente insignificante: una festa tra compagni di classe per il compleanno di Stefania. Carlo temeva il corteggiamento dei miei coetanei, desiderosi di fare le prime esperienze e questo fatto scatenava in lui una gelosia esagerata. Trascorse soltanto qualche mese e la nostra storia era già finita. Non sopportavo le sue sfuriate senza motivo, non volevo sentirmi proprietà di nessuno ora che potevo essere finalmente libera di organizzarmi la vita. Intanto, che crescevo e sognavo il mio futuro, si avvicinava la fine dell’anno scolastico. Non ero sicura di superarlo senza dover sostenere gli “esami di riparazione” previsti a settembre, perché avevo qualche insufficienza. Finalmente arrivò il fatidico giorno ed andai a scuola per vedere le pagelle che venivano affisse in bacheca. Fui promossa con un buon voto, ma il risultato comunque positivo mi riempiva il cuore di gioia. A casa la mamma e la nonna mi fecero trovare il pranzo dei giorni di festa: pasta al forno, cotolette, frutta a volontà e per finire il papà era passato in pasticceria dopo il lavoro, come faceva tutte le domeniche, per acquistare i miei dolci preferiti. La scuola era finita nel migliore dei modi e non vedevo l’ora di poter andare al mare insieme a mia sorella, all’amica Maria e sua madre. Nessuna di noi ancora guidava, ma alla fine di agosto decisi di prendere lezione da un amico del papà, Alberto, autista di mestiere, per poi sostenere gli esami qualche mese dopo. Intanto era arrivata la data fatidica, l’appuntamento al belvedere, per fare quella corsa che avrebbe proclamato il vincitore assoluto. Il giorno stabilito fu la domenica 10 giugno. Faceva già caldo e tirava un venticello gradevole. Ci preparammo per la corsa alle 10:00. Tutte indossavamo i pantaloncini, per essere più comode nella corsa, e i sacchi erano tutti del colore della corda, contraddistinti da un numero. Alla stazione di partenza c’era il nostro amico Francesco, che vigilava sulla regolarità della gara e attendeva poi al traguardo. Noi ragazze, prendemmo una sorta di rincorsa e poi via lungo il Viale, veloci come il vento. Al traguardo Francesco stabilì, a suo insindacabile giudizio, chi avesse vinto. Qualcuna lunga il tragitto cadde e fu esclusa. Vinse mia sorella Vittoria, con il sacco numero sei, ma fummo tutte ugualmente felici per aver portato a termine quella sfida. Per festeggiare, riuscimmo ad ottenere la possibilità di andare al mare senza accompagnatori con l’accordo di rientrare prima di sera. Era il primo timido segnale che i tempi stavano cambiando e noi eravamo protagoniste di questo vento favorevole: cinque giovani fanciulle che dopo la guerra stavano ricominciando a vivere.