Racconto di: Nicla

(Prima pubblicazione – 7 febbraio 2020)

 

Avevo compiuto otto anni quell’anno e mi sembrava di aver già fatto un gradino importante in quella scalinata chiamata “crescita” che ancora non sapevo dove mi avrebbe portato.

Frequentavo la terza elementare e avevo iniziato a usare il Sussidiario, un libro con foto e mappe geografiche, e con nozioni più sofisticate del libro di lettura usato fino ad allora, che abbondava di disegni e testi stampati a caratteri grandi.

Avevo anche iniziato a prepararmi per il sacramento della “Confessione”, tappa a quei tempi quasi obbligata per i bambini della mia età. Due pomeriggi a settimana in parrocchia per l’ora di catechismo, che sorbivo passivamente per poi fermarmi a giocare in patronato con le mie amiche. Finché non faceva buio; “un po’ prima che faccia buio perché sei ancora piccola per stare in giro quando viene scuro”, una minaccia inderogabile, scolpita in me dalla voce della mamma.

Anche quel giorno avevo aspettato impaziente la fine della lezione di catechismo per correre fuori a giocare, perché in autunno il buio arriva sempre un po’ prima e un po’ prima dovevano finire i giochi. E quel giorno il buio proprio non l’avevo visto arrivare, e così ero corsa a casa implorando che la fessura di luce in cielo restasse accesa ancora a lungo, per farmi arrivare a casa prima del tramonto, sana e salva.

Che sia stato il buio a farla arrabbiare, o qualcosa che avevo fatto/non fatto nei giorni precedenti, non lo so dire. Il rimprovero sembrava arrivare da lontano, covato da giorni, in attesa del momento propizio per esplodere. Ed esplose su di me quando aprii la porta di casa, lasciandomi stordita con quella frase inedita, mai sentita nel ricco campionario di rimproveri: “E ora vai subito a rifarti il letto, che sei grande abbastanza ed è quasi ora di cena”.

Rifare il letto? 

Avrei capito una sculacciata o un’altra punizione, tipo apparecchiare la tavola per tutta la settimana, ma questa nuova incombenza a gravare sui miei otto anni oltre a tutto il resto… e poi, perché il letto andava rifatto?

Per me il letto spariva dal mondo al mattino, quando mi alzavo richiamata dall’odore dolce di latte sul fuoco. Lo ritrovavo alla sera, al capolinea dei miei giochi, liscio e levigato come un prato inglese sotto a un copriletto a costine verdi. Cosa gli accadesse nel mezzo, proprio non lo sapevo.

Quella sera il faccia a faccia con il letto sfatto me lo fece scoprire.

Il copriletto verde, quasi completamente a terra dalla parte dei piedi, lasciava intravedere le interiora di lenzuola e coperte, spiaccicate al muro, come un animale che si lecca le ferite. Il pigiama a stelline giaceva esanime sopra il cuscino, un ferito in attesa di bombola d’ossigeno.

Da dove iniziare?

Per prima cosa diedi adeguata sepoltura al pigiama spalmandolo sotto al cuscino, che risultava così più alto e imponente. Poi cercai invano di tirare su il lenzuolo, che si era impigliato da qualche parte e non ne voleva sapere. Non capivo come una cosa così leggera potesse fare tanta resistenza.

La coperta, più docile anche se più pesante, si fece trasportare fin quasi al cuscino sporgendo però tutta di lato. L’unico obbediente fu il copriletto che, grazie alla lunghezza, si fece trascinare oltre il cuscino, adornando quella gobba del suo manto verde drago e ricoprendo le gibbosità irrisolte degli strati sottostanti, dando al letto un aspetto di collina vulcanica silente, pronta ad eruttare.

L’eruzione più travolgente fu però quella di mia madre che si affacciò alla porta della stanza per un’ispezione. E avvicinandosi al letto, con un solo colpo di mano, uccise il drago e disinnescò il vulcano. Tutto da rifare. Sotto al suo sguardo perentorio.

Mi aiutò a scostare il letto dal muro, quel tanto che bastava per liberare il lenzuolo impigliato nell’angolo più irraggiungibile. Quando mi affacciai alla fessura aperta tra materasso e parete, ai miei occhi si squarciò una realtà di calzini appallottolati, fazzoletti, forcine per capelli e pure una medaglietta che avevo vinto non ricordo in quale gara a scuola. Realtà di cui lei fortunatamente non si accorse, perché nel frattempo aveva spostato cuscino e pigiama sulla sedia.

“Lo vedi il lenzuolo? Prendilo con tutte e due le mani e scuotilo un po’, e poi posalo sul materasso, deve essere teso, liscio, ben tirato, appiattito” e con la mano si mise a spalmare il lenzuolo come un ferro da stiro. Provai ad imitarla, ma le mie piccole mani a ogni passaggio sembravano moltiplicare le pieghe invece di diminuirle.

“Fai la stessa cosa, prima con la coperta e poi con il copriletto, tirali su, fino alla testa del letto, la coperta è più corta, non arriva fino in fondo, il copriletto invece ci arriva. Spalmali bene, su tutta la lunghezza”. E quando il letto divenne completamente piatto, sepolto sotto i vari strati, fece fare una piega al copriletto dal lato della testa e vi posò sopra il cuscino, che ricoprì subito con il copriletto, sempre accarezzandolo.” Come un drago pensai, ma il drago era sparito e al suo posto c’era un letto come quello che ritrovavo solitamente alla sera: ordinato. Ordinario.

La mamma sembrava soddisfatta di quel primo risultato, mentre io, perplessa e sudata, guardavo il pigiama ancora sulla sedia con una domanda che mi gironzolava in testa e che da allora non mi ha mai abbandonato:

Perché fare tutta questa fatica se quando vado a dormire devo disfarlo di nuovo?