Racconto di Francesco Aquino

 

Era il 25 di luglio. E noi, arroccati nella grande casa sul mare, continuavamo a indossare maglioni colorati, felpe e calzini.

Pioggia, neve e grandine – da allora non c’era stato neanche un giorno di sole.

Inizialmente sottovalutammo quel clima autunnale. Passerà, diceva mio nonno, scrutando il mare dalla veranda della grande casa.

Onde alte più di tre metri sfioravano i binari.

– Si rischia una tragedia se qualcuno non si decide a fare qualcosa – dicevo io, ma a nessuno sembrava importare del treno, dei passeggeri o di un futuro deragliamento. Anche le autorità, rappresentate da un uomo con i baffi di nome Paco, alzavano le spalle e dicevano che era un problema dello Stato e che sarebbe bastato un giorno di sole e di vento proveniente da terra per calmare il mare e scongiurare qualsiasi pericolo.

Ma i giorni di sole continuavano a rimanere un miraggio.

Mio padre, che quell’anno aveva deciso di prendere le ferie in anticipo, sgranocchiava nervosamente noci e mandorle.

– Il mare di luglio – aveva detto a maggio – è migliore di quello d’agosto: meno caos sulla spiaggia, acqua cristallina, sole che tramonta oltre le 21.

Zio Pino arrivò dall’America la mattina dell’uno di agosto. Occhiali da sole, cappello di paglia, camicia a fiori. Mancava dall’Italia da 5 anni. Una vita da immigrato, un ristorante di pesce a Miami, una villetta con piscina.

– Sembra di essere in Michigan a novembre – disse a mio nonno.

– Cos’è il Michigan? – chiese mio nonno.

Zio Pino si accese un sigaro e disse che il Michigan, a pensarci bene, più che uno Stato era una condizione mentale. Poi si tolse la camicia e rimase a petto nudo.

L’app meteo del mio smartphone segnava 13 gradi.

Era l’unico che riusciva a stare a petto nudo. Persino nonno, il 29 luglio, si era convinto a indossare una t-shirt già dalla mattina.

– Non senti freddo, Zio? – chiedeva mia madre.

– Siamo al mare – rispondeva lui – siamo pur sempre al mare.

Pioveva e quando non lo faceva c’erano le nuvole. Mai una giornata di sole. Nonna si alternava con mia madre nel tenere pulito il pavimento del cortile. Le zanzare erano un tormento e un pomeriggio io e mio padre andammo in farmacia e spendemmo 50 euro in Autan e Fargan reactive. I vestiti iniziarono a puzzare di Autan. Le punture diminuirono ma avevamo la pelle appiccicosa e la cosa ci rendeva nervosi.

In tv il meteo parlava di cicloni e anticicloni. Un uomo con la barba spiegava il loro spostamento dall’Oceano alla terra ferma. L’uomo razionalizzava una cosa per noi inconcepibile. Nonno alzava un braccio e indicava il mare, poi si portava il dito indice alle labbra e scuoteva la testa.

– Cosa fai? – gli chiese una mattina suo figlio Franco.

– Il vento – disse nonno – assaggio il vento. E non ci sono buone notizie.

Mio padre andava a correre all’alba con un cappellino di lana. Gli piaceva l’odore del mare di mattina. Il rumore delle onde, la spiaggia vuota, i gabbiani che si posavano sulla sabbia prima di riprendere il volo. Diceva anche che era l’unico momento in cui non pioveva. E’ sempre stato un amante di Nietzsche, si era portato una copia di Al di là del bene e del male ma nello stesso momento, ogni volta che passava davanti a una chiesa, si faceva il segno della croce.

A Zio Pino invece il mare piaceva all’ora di pranzo, quando il sole brucia la pelle e i pesci danzano a riva. Ma a quell’ora pioveva sempre, così lui ripiegò sul cibo che cucinava mia nonna, cibo fritto nell’olio e impanato, cibo che richiedeva lunghe ore di cottura, carne saltata con cipolla, peperoni, grandi cisterne di pasta fatta con uova e farina.

-Ho fatto tanta strada, diceva. Ho comprato anche una fiocina nuova.

Me la fece vedere, ancora nella scatola, insieme alla busta e allo scontrino.

Aveva perso il sorriso.

Un giovedì, stanco di aspettare il bel tempo, scese in spiaggia. Sarebbe venuto a piovere da un momento all’altro. Io indossai il k-way di mio padre, presi un libro e lo accompagnai.

Il mare odorava di muschio. Non eravamo soli, una decina di persone sedute sulla sabbia indossavano piumini e giocavano a carte oppure, stesi sui teli, ascoltavano qualcosa dai loro smartphone. Zio Pino infilò i piedi in acqua. Com’è? Chiesi. Fredda, rispose lui. Ci mise più di mezz’ora per convincere il suo corpo a calarsi. Divenne pallido. Nuotò fino a una boa, poi tornò indietro e si strinse nell’accappatoio. Dovetti aiutarlo a stendersi, disse che gli girava la testa. Disse anche di non preoccuparmi che si sarebbe ripreso presto. Una nuvola nera coprì il sole. Telefonai a mio padre. Lo aiutai ad adagiare zio Pino in macchina, steso sui sedili di dietro. All’ospedale il medico usò la parola incoscienza. Zio Pino passò i restanti sette giorni a giocare con mia cugina di nove anni a scacchi. A mangiare polpette. Ad ascoltare Carlos Santana dall’Ipod. Sabato mattina io e mio padre l’accompagnammo all’aeroporto. Mio padre rimase indeciso fino all’ultimo se abbracciarlo o no, ci mancò poco che non gli chiedemmo scusa.

L’unica persona che sembrava rimanere indifferente a quel clima rigido era mia madre. Fosse dipeso da lei sarebbe rimasta tutta l’estate in città, dove aveva tutto quello che le serviva: un condizionatore d’aria in caso di una remota possibilità di caldo improvviso, la cucina nuova di zecca, la tv satellitare, il divano a tre piazze e mezzo, la connessione internet.

Mia madre era anche l’unica a vestirsi con abiti di cotone e cucinare piatti estivi, come l’insalata di pasta o i tortini di zucchine. Torniamo in città, diceva a mio padre. Che senso ha restare in questo buco? Ma mio padre, che forse credeva alla teoria dell’eterno ritorno, non voleva rischiare di passare l’estate in città per l’eternità, così rifiutava sempre quella proposta e trascorreva il pomeriggio steso sul letto a leggere e risolvere un nuovo cruciverba di Batterzaghi. Io facevo lo stesso, ma era già un miracolo se risolvevo quelli facilitati a metà pagina della settimana enigmistica tra una vignetta divertente e un’altra.

I primi sette giorni di agosto furono come gli ultimi di luglio.

Mio nonno diceva che il vento odorava di ferro, mia nonna si lamentava delle zanzare e la casa di fronte la nostra, vuota fino a quel momento, si popolò di due famiglie. Parenti anche loro. Fratelli di mia madre. Zio Paolo e Zio Carlo.

Il primo arrivò con la moglie e le due figlie e come prima cosa montò un gazebo bianco in giardino. Il secondo arrivò con la compagna, una donna in carne, che, a detta di mia madre e mia nonna, cucinava il miglior tiramisù che avessero mai mangiato.

La sera di quel giorno Zio Paolo organizzò una spaghettata sotto il gazebo. Terminò alle due di notte a causa di un violento nubifragio che danneggiò il gazebo e bagnò i presenti.

L’undici agosto caddero più di 300 millilitri di acqua. Il mare era un ruggito che si sentiva anche con la tv ad alto volume. Fare la doccia in giardino divenne un’utopia, così io e mio padre fummo costretti a farla dentro il piccolo e angusto bagno. Allagammo e mia madre raggiunse l’apice dell’insofferenza, se non avesse piovuto in quel modo, avrebbe preso la macchina e sarebbe tornata in città. Questo non lo disse ma lo fece capire con un atteggiamento ostile e ribelle. Si rifiutava di cucinare, lavare i piatti e interagire con noi.

Per due giorni io e mio padre andammo a pranzare da mia nonna. Ma il troppo olio, il troppo aglio e le cipolle praticamente usate in qualsiasi piatto ci fecero venire coliche e vomito.

Guardavamo nel vuoto la pioggia, bloccati nella casa e non avevamo niente da dirci.

Poi si sparsero delle voci. La fonte pareva essere zio Carlo, ma io e mio padre speravamo di no, perché zio Carlo era famoso per ingigantire fatti banali. Per esempio se aveva bevuto mezza bottiglia di vino diceva che ne aveva bevute tre, oppure dava per fatte trattative di calciomercato che ignoravano persino i giornali.

La voce diceva che l’11 agosto sarebbe arrivato l’anticiclone e finalmente l’estate. Temperature in aumento di 15 gradi. Sole a tutte le ore del giorno e anche la notte. Mare calmo e pulito. Finalmente ombrelloni, infradito, teli da mare, maschere, barbecue, pinne. Finalmente io e mio padre avremmo potuto staccare le etichette dai costumi comprati ormai due mesi prima al centro commerciale.

Il meteo del 10 agosto fu accolto con grande trepidazione. Dalla sera prima non si parlava di altro. Ci riunimmo tutti a casa di mio nonno. In piedi, sgranocchiando Pop Corn caldi e bevendo Coca Cola gelate. Fuori grandinava. Speravamo di non avere problemi con la parabola.

Il meteo iniziò. Sentivo il cuore battermi nel petto, l’adrenalina era una sostanza calda e appiccicosa sotto la lingua, bevvi un lungo sorso di Coca cola, mi accesi una sigaretta e osservai i miei genitori. Si tenevano per mano. Stretti nei loro Woolrich.

In tv apparve l’uomo con la barba. Parlò di perturbazione atlantica. Parlò ancora di pioggia. Di tregua lontana. Di pioggia per almeno sei giorni. Di un miglioramento forse a ferragosto, forse mai. Tutti fissammo Zio Carlo. Volarono parolacce.

Mi sentivo come nel 2010 e nel 2014, quando l’Italia era uscita dal mondiale già dalla fase ai gironi. Era estate ma noi non potevamo parteciparvi. Pioveva solo da noi, d’altronde. Il telegiornale trasmetteva le immagini delle altre spiagge d’Italia: gente felice, sotto gli ombrelloni, con i bambini, sui materassini. Gente abbronzata e sudata. Gente che giocava a beachvolley e leccava gustosi gelati.

Odiavamo quella gente.

Se la ragione non c’era d’aiuto tanto valeva affidarsi alla magia.

Così facemmo.

Forse furono i pescatori a chiamarlo. Forse gli albergatori, forse il proprietario dell’acquapark o forse mio nonno. Fatto sta che il 12 agosto arrivò in paese lo stregone. Era un uomo basso, calvo e con una lunga barba bianca. Le braccia piene di tatuaggi. Arrivò con la moglie – una donna magra, sui 50 anni, una lunga treccia bianca, piercing alle narici – e una valigetta di pelle. Si piazzò in un albergo di fronte al mare. Camera numero 12. Mezza pensione.

Quello stesso pomeriggio si mise al lavoro. Incurante della pioggia si piazzò sul lungomare. Nel giro di pochi minuti tutto il paese lo attorniò. Tolse dalla valigetta una specie di ciondolo ottagonale e lo puntò verso le nuvole. Poi disse una formula in latino. Due volte. Non ci credemmo, ma il vento aumentò di intensità, le nuvole si aprirono e ci fu persino uno spiraglio di sole. Spalancammo la bocca prima del boato, degli applausi, degli abbracci. Gli occhi di mio padre divennero lucidi.

Il sole durò meno di quattro minuti. Tornarono le nuvole e anche la pioggia.

Lo stregone ripeté la formula in latino per altre tre volte. Nessun cambiamento meteorologico si verifò e dopo altri due giorni di mal tempo lo stregone fu costretto a scappare via, come un delinquente, di notte, con il primo treno verso una destinazione sconosciuta.

Le decine di persone che lo aspettarono con i forconi, la mattina dopo, mi raccontò zio Carlo che era tra loro, sfogarono la rabbia andando a spaccare le vetrine dei negozi della stazione. Polizia, lacrimogeni, un gruppo di persone con le sciarpe attorno alla bocca in fuga sui binari, intonarono cori da stadio e si sparpagliarono una volta in paese.

Zio Carlo si alzò il maglione e mi mostrò una ferita sul costato. Manganello, disse sorridendo. Sembrava orgoglioso.

Il 12 agosto telefonò mia sorella e ci disse che era assurdo che nel ventunesimo secolo la gente credesse ancora negli stregoni della pioggia. Mia padre alzò la voce e rispose, in sintesi, che era facile parlare dal Salento. Dall’estate. Dal sole e da lunghe sorsate di tè ghiacciati.

Quando riattaccammo il telefono, mia madre preparò a mio padre una camomilla calda. Lui sembrò esserle grata. Anche se rimase per tutto il giorno inquieto e se la prese con il cane che piangeva solo perché aveva fame e da circa otto ore nessuno aveva pensato a lui.

La frustrazione si trasformò in rabbia. Il 13 agosto passò per il paese un auto con l’altoparlante che annunciava, per il pomeriggio, dalle 17 in poi, una manifestazione di protesta contro il cattivo tempo. L’appuntamento era nella piazza principale del paese. Raccomandava a tutti i cittadini di essere presenti.

– Cari concittadini dobbiamo unirci! Ci stanno privando dell’estate! Si sono presi tutto, anche l’estate! Dobbiamo ribellarci a questa ingiustizia!

Dissi a mio nonno:

– Chi è, precisamente, il soggetto accusato, secondo te?

Ma nonno non aveva più voglia di parlare del tempo, diceva che se avesse sentito anche solo un’altra persona lamentarsi del clima, avrebbe preso la fiocina di Zio Pino e l’avrebbe sparato con le sue mani. Che tutti sommato dovevamo ringraziare Dio perché eravamo tutti in salute e tutta la famiglia riunita. Che il non scendere sulla spiaggia ci aveva permesso di pranzare ogni giorno insieme. Poi mi raccontò di suo padre. Precisamente di come era morto suo padre.

La sera del 13 agosto un fulmine mandò la parabola k.o. Mia sorella, settimane dopo, giurerà che le urla di mio nonno si erano sentite anche da lei in Salento.

Torniamo in città, ripeté mia madre e sembrava convinta perché fece anche le valigie. Mio padre però non voleva cedere. Stiamo calmi, disse, non possiamo perdere la speranza proprio ora.

Io trascorsi la maggior parte del tempo chiuso in camera, a leggere Rayuela di Cortazar e scrivere brevi racconti incentrati sulla filosofia di Nietzsche, gente a cui mancavano pochi giorni di vita e dovevano cercare di trovare un senso, banalità, tentativi falliti di affrontare quelli che allora credevo fossero i miei interessi concettuali.

Non stavo bene, questo no, lo spazio era piccolo e in più dovevo dividerlo con i miei genitori che erano inquieti. Ma si stava meglio da noi che altrove. Gli zii che non facevano altro che urlare con le rispettive consorti e mangiare. Urlare e mangiare. Fui costretto a comprare dei tappi per le orecchie. Fu una rivelazione: un mondo di silenzio.

Venni a sapere che alla manifestazione non partecipò nessuno, tranne alcuni gelatai che decisero di produrre cioccolata calda per recuperare anche solo una minima parte delle perdite.

Per una sorta di delirio collettivo sembrava che avessimo deciso di stabilirci al mare a novembre. Un novembre mite, tutto sommato, disse Zio Paolo, salutandoci, con le valigie in mano, direzione Puglia.

-Non era contento – disse mio padre – questo imprevisto gli era costata un occhio della testa, praticamente quasi tutto il budget estivo.

A Ferragosto si registrò la temperatura più bassa: 6 gradi. Mio nonno ci portò a pranzo in un ristorante di pesce sul mare a mangiare gnocchi con sugo di cinghiale, arrosto di vitello, patate e peperoni. Dopo pranzo tornammo nelle nostre case per il riposo pomeridiano. Io presi un ombrello e scesi sul lungomare per una passeggiata digestiva.

C’erano alcuni incoscienti sulla spiaggia, un gazebo che sfidava il vento, una chitarra, un falò che dava l’impressione di potersi spegnere da un momento all’altro, odore di carne alla brace.

Camminavo con le mani in tasca. Il mare continuava a odorare di muschio. Pensai che mi sarebbe piaciuto incontrare qualcuno, un personaggio uscito da un romanzo di Kafka, per esempio, la maga di Cortazar o chiunque altro, qualcuno che mi avrebbe saputo spiegare, in maniera razionale, non tanto la pioggia e il freddo in estate, quanto piuttosto la mia vita fino ad allora. Le scelte future, i dubbi che avevo in testa, che cosa fare dopo il divorzio e dopo la morte di mia figlia.

Erano passati 364 giorni esatti. Ma allora c’era il sole. Tornavano dalla città, erano andate a comprare dei libri. Lei, mia figlia, stava leggendo la saga di Harry Potter, aveva terminato il secondo volume, voleva il terzo e come tutte le bimbe di 12 anni, lo voleva subito. Io rimasi al mare, l’accompagnò la madre. Trascorse tutto il pomeriggio, la segreteria telefonica divenne una presenza costante. Fu un carabiniere di nome Vincenzo a chiamarmi. Presi l’auto e la parcheggiai di fronte la lunga coda delle altre automobili. Mi dovetti sporgere dal cavalcavia per vedere quella di mia moglie. Riconobbi il corpo di mia figlia dal braccialetto alla caviglia. Poi, credo che fu da quel giorno, in realtà, che arrivò la pioggia, il freddo, alcuni giorni perfino la neve.

E la pioggia non smise di cessare, il paese continuò a svuotarsi e anche Zio Carlo, il 21 agosto tornò in città. Mio padre e mia madre non litigavano più, se restavamo ancora lì era solo perché a mio padre piaceva andare a correre all’alba sul lungomare. Mio nonno stava sempre sul letto a leggere riviste, mia nonna in cucina, davanti la tv.

Questo fino al 29 di agosto di 5 anni dopo.

Dal 29 agosto, come anticipato dal meteo, arrivò e durò per tutta la settimana, la tanto attesa ondata di caldo. Caldo record. Temperatura superiore ai 38 gradi.

Il 30 agosto il paese si ripopolò. Sulla spiaggia bisognava scendere ad orari strategici perché altrimenti non c’era un buco per piantare l’ombrellone. Usammo creme solari, cacciammo i cartellini ai costumi e anche mia madre, che non amava il mare, si fece il bagno per due giorni di fila, il terzo si lamentò della confusione e del caldo. La trovammo a casa sul divano, davanti la tv, con l’aria condizionata impostata sui 18 gradi.

In due giorni mangiai due chili e mezzo di gelato. Zio Paolo tornò dalla Puglia con un materassino a forma di orso Yoghi. Mio nonno piantò la seggiola sulla spiaggia e restò seduto lì per quattro giorni consecutivi. Io gli portavo il cibo avvolto in una carta stagnola. Teglie di pasta al forno. Frutta fresca. Acqua gelata.

Sembra un lungo ferragosto, disse mio padre, il 31, con tristezza, perché tre giorni dopo sarebbe dovuto tornare a lavorare.

Comprammo del pesce dai pescatori e la sera lo arrostimmo. Mio nonno disse che si sarebbe fermato un’altra settimana anche perché la notte sarebbe arrivato dal nord Zio Roberto – il quarto figlio, dopo mia madre, Zio Carlo e Zio Paolo – con la nuova compagna.

Il 3 settembre, io, mamma e papà facemmo le valigie e tornammo in città. Prima però passammo a salutare Zio Roberto che era appena arrivato dal nord.

Aveva il viso stanco e sudato, stava chiedendo a mio nonno fino a quando questo caldo terribile sarebbe durato.

– Il padre di mio nonno è morto la mattina del 31 agosto 1946. Stava attraversando un vigneto, ai piedi della collina. Poi sentì un rumore. Il rombo di un motore. Ma non veniva da terra, piuttosto dal cielo. Era un aereo. Davvero un aereo. Il padre di mio nonno piazzò la testa verso il cielo e seguì l’aereo e tentò di salire la collina per poter vedere meglio quella macchina volante. Ma la collina era ripida e faceva caldo e poi c’era una componente genetica da non sottovalutare. Arrivò l’infarto e il padre di mio nonno morì – mi disse mio nonno – con lo stupore negli occhi. –

A volte mi chiedo se quello stupore, io, sarò più in grado di provarlo.