Racconto di Giuseppe Joe Bonato
(Terza pubblicazione – 24 giugno 2021)
Enzo, mio coetaneo dai capelli lunghi e lisci, fisico asciutto e numero 7 della formazione, ha appena recuperato il pallone a centrocampo ed ora sta galoppando sulla fascia destra nella sua tipica oscillante falcata, gambe leggermente arcuate, calzettoni calati sulle caviglie, imitando il più famoso George Best del Manchester United a cui somiglia vagamente. Tutta la squadra, seguendo l’azione, si è già portata in avanti, verso la metà campo avversaria, incitata dal solitario portiere rimasto di guardia ai nostri legni. Il pubblico strepitante sottolinea il momento, mentre io convergo rapidamente da sinistra verso il centro braccato dallo stopper, arcigno e scorretto, che mi marca stretto, sgomitando maledettamente…
Già durante il primo tempo questo antagonista trentenne dall’aria truce mi aveva imposto con cattiveria il suo metodo di gioco, duro e sleale, intimorendomi fin dall’inizio del match con frasi frammentate del tipo: “Bocia… sta bon… guarda che te spacco le gambe…”e scalciando irruentemente a vanvera per poi proseguire colpendomi con piccoli e precisi pugni ai fianchi, durante i calci d’angolo, per levarmi il fiato e farmi perdere concentrazione e coordinazione. Per giunta, dopo un quarto d’ora di gara, avevamo anche subito un goal dalla loro veloce ala sinistra che però era stato pareggiato magistralmente, verso la fine dei primi 45 minuti di gioco, con una perfetta punizione scoccata dal limite dell’area dallo specialista Gildo: un rasoterra secco ed imprendibile. In quella prima frazione di gara avevo combinato ben poco, non solo per il condizionamento psicologico causato dal mio diretto rivale, ma soprattutto per l’intermittenza innaturale intercorsa tra l’impulso cerebrale e le gambe; l’emotività mi stava giocando un brutto scherzo, tanto che dopo essere passati in svantaggio ero uscito a bordo campo per un insopportabile attacco di crampi ai polpacci. Mentre ero sotto le cure di Stanco, massaggiatore tuttofare, prospettai all’allenatore l’eventualità di essere sostituito. Con la tranquillità che lo distingueva mi rincuorò e mi incitò a perseverare nell’azione di movimento a cui non ero abituato essendo, nella squadra Juniores, una mezzala di punta con buona propensione al goal. “Devi solo insistere con più determinazione ,… che va bene così! Ora entra!” Ricaricato tornai al centro dell’attacco e un attimo dopo mi ritrovai addosso, ringhiante, il mastino dei Baskerville, mentre il senso d’affanno riprese…
In buona sostanza ora vivevo e provavo sulla mia pelle, un po’ sprovvedutamente da imberbe qual ero, un sistema di gioco del tutto estraneo al mio mondo che non mi entusiasmava particolarmente e, teso com’ero per l’evento, cercai di ripensare alle raccomandazioni fatte del mister nello spogliatoio prima della gara. “Beppe, oggi sostituisci il centravanti” aveva detto lanciandomi la maglia: “Dal centrocampista Gildo ti arriveranno lunghi lanci e dovrai muoverti a pendolo, a destra e a sinistra, scambiandoti nel ruolo d’ala con Enzo o Pieraldo per creare gli spazi in cui inserire la mezzala di punta Lino e lo stesso mediano di spinta Giacomo per forare la difesa avversaria.” A queste parole, Lele aggiungeva: “Sono solo indicazioni generali, ma resta concentrato e gioca come sai fare che i piedi buoni li hai”. Ecco che rivedevo, come un film, l’entrata in campo delle due squadre al leggero trotto dietro l’arbitro; il loro schierarsi di fronte alla tribuna dello storico stadio Miotto gremita di pubblico rumoreggiante e disporsi sul campo. Il pomeriggio primaverile era splendido ed il manto erboso perfetto, mentre trepidante attendevo il fatale fischio d’inizio. Indossare, poi, la storica casacca rossonera numero 9 della Prima squadra (campo nero con banda orizzontale rossa) mi sembrava l’esordio nella massima Serie, anche se in realtà era la Prima Categoria Dilettanti del campionato 1970/71. La gloriosa società rossonera stava risalendo dalla Terza Categoria grazie all’impegno dell’autorevole e appassionato presidente che aveva bisogno di una squadra giovanile su cui contare, sia in prospettiva sia come serbatoio di riserve. Nella squadra Juniores del Thiene dov’ero approdato affluivano i migliori giovani dei vari club della zona. Il campionato di quel secondo anno in cui militavo con la squadra rossonera era Juniores Regionale FIGC, molto impegnativo e con formazioni di rango; mi sembrava di giocare nelle giovanili del Milan visto i colori e l’entusiasmo. Eravamo in testa al girone di ritorno avendo espugnato i campi veronesi del Legnago, dell’Olimpia di Montorio e l’autentica fossa dei leoni di San Zeno, battendoci alla pari con i cugini nero-stellati del Malo, i giallo-rossi dello Schio e i bianco-azzurri del Valdagno che avevano la loro Prima squadra in serie D. In quegli anni di gioco, però, pochi erano i ragazzi che avevo incontrato dotati di cattiveria e slealtà per imporsi sugli altri; erano fantasia, tecnica, velocità, senso tattico e resistenza fisica i valori di riferimento e non ultimo il rispetto per l’avversario da affrontare correttamente e lealmente. Ora, invece, mi ritrovavo catapultato dalla mattina al pomeriggio a giocare in Prima squadra, sostituendo Renato, il centrattacco titolare che si era infortunato in allenamento, contro gente che mi sembrava già vecchia per i miei 17 anni, per giunta interessata alle gambe da romperti più che al pallone. Consideravo: “Cosa sto facendo in mezzo a questi personaggi che pur di non farti giocare ti umiliano e ti provocano, quando l’arbitro non vede?” Ero confuso e mi rivedevo il mattino arrivare allegro negli spogliatoi e prepararmi per l’incontro con la formazione avversaria dei cugini dello Zanè, all’epoca vivaio di un Varese in serie A. Senz’altro mi sarei battuto come un leone ad armi pari, senza cattiveria e con lealtà, solamente per il sano gusto di divertirmi. Con mia meraviglia e fra lo stupore dei compagni, i nostri due allenatori Franco e Gemple, mi fermarono e dissero di non cambiarmi perché ero stato convocato per quel pomeriggio in Prima squadra. Ricevetti grandi complimenti dei miei amici che poi contemplai giocare da fuori campo, estraniato com’ero con la testa nel pallone…
Enzo, inseguito dal terzino in ritardo, corre spedito e sta ora raggiungendo il vertice dell’area avversa, mentre io, senza perderlo di vista, scorgo con la coda dell’occhio, oltre la pista rossa d’atletica e la recinzione, l’incombente tribuna traboccante di tifosi urlanti. Metto da parte l’emozione che mi ha, più dell’avversario, reso le gambe legnose e mi concentro sulla sfera a esagoni bianconeri che a momenti partirà dal suo magico destro. Ecco, puntuale, decollare il perfetto e calibrato cross a spiovere, mentre lo stopper feroce, guardandomi in cagnesco, punta la sua preda più che il pallone. Corro al centro veloce; rapida finta a bloccarmi per l’istante utile a far perdere il tempo al rivale; riprendo di scatto la corsa e mentre la parabola arriva precisa all’incontro mi coordino agilmente in un salto plastico con buon sincronismo. Allargando le braccia in elevazione rifilo col gomito un velato colpo sul naso allo stopper in ritardo e tendendo all’indietro l’esile collo, con la fronte colpisco di scatto in maniera perfetta la sfera, deviandola sulla porta avversaria. È come rivedere un filmato al rallenty: il braccio del portiere si allunga di traverso a periscopio; la mano guantata gigante cerca agitata di deviare la sfera che invece incoccia sonora l’incrocio dei pali, finendo decisa nel sacco. Ricado intontito all’istante sul difensore beffato e dolente. È il 4° minuto della ripresa e l’urlo si strozza afono in gola all’unisono col boato di tutto lo stadio. Il primo ad abbracciarmi è il biondo Pieraldo. Poi tutti i compagni mi sono subito addosso in un grappolo umano e mentre rientro felice nei ranghi osservo lo stopper, con le mani sul setto nasale malconcio, sgridato dai colleghi di squadra. Supero la metà campo e Gino, nostro capitano col doppio dei miei anni, battitore libero con un passato da professionista di serie A e B, mi viene incontro con un largo sorriso e dandomi una pacca sulla spalla mi dice: “Bravo bocia… ben fatto!”; mentre Francesco, portiere dal baffo messicano, mi urla da in fondo alla porta alzando il pugno: “Forte… bravo, Beppe!” Ora la partita è sciolta in discesa. Segna il terzo goal della tranquillità Enzo e anch’io, ormai sbloccato, partecipo e creo azioni pericolose fino al 90°. Al fischio finale salutiamo il pubblico che ha gradito e io rientro raggiante nello spogliatoio, dove trovo anche tutti gli amici juniores a festeggiare. È ormai sera. Sono a casa dopo la baldoria ed esamino mentalmente la partita. Tra sensazioni contrastanti ripenso al mio minaccioso avversario umiliato che ho colpito. Ora il pensiero si concretizza e rifletto consciamente come la genuinità nello sport esista solo tra gli spiriti puri fino a quando non venga inquinata dall’incontro con certi adulti; è allora il momento in cui lo sport vero si sporca superando un’impercettibile linea che ne demarca l’essenza. Ecco, anch’io ho avuto l’esordio nel calcio degli adulti superando a pieni voti anche quella sottile linea rossa, ma ora che sono solo con la mia anima non provo grande esultanza: qualcosa oggi in me è mutato.
Giuseppe, il tuo racconto è bellissimo. Scritto bene, con un buon ritmo che non cala mai. E poi, finalmente, ecco in campo i valori. La purezza e la necessità di inquinarla per diventare adulti. Bravo, Giuseppe, il tuo racconto è tra i migliori che abbia mai letto (Non parlo di Cechov o Eudora Welty e dei grandi della letteratura) in giro per riviste letterarie, sia per stile sia per contenuto.
Ho appena letto il tuo commento. Grazie Mario