Racconto di Elisabetta Pizzarda

(Prima pubblicazione)

Illustrazione di Annamaria Patrizi

 

 

Raggomitolata sulla poltrona di vimini, accanto al camino ancora acceso, Lia cercava un po’ di tepore per riscaldare i pensieri infreddoliti dalla consapevolezza di aver compiuto di nuovo un grave errore.

Aveva bisogno di ritrovare l’equilibrio. Come sempre, però, restava con il fiato sospeso in attesa di qualche entità che sistemasse le cose. Quello stato, in realtà, costituiva un altro sbaglio; un limite entro cui si racchiudeva la sua personalità. Il vero errore consisteva proprio nel vivere sospesa, nel non riuscire a sconfiggere l’affanno dell’indecisione.

A volte, però, pensava che, se si fosse allontanata del tutto dal suo incessante errare, avrebbe avvertito ancor di più il senso di vuoto e perdizione.

Quell’errore, divenuto ormai costante, era parte di lei, nutriva la sua interiorità. Si mostrava vivo, solido e robusto, con le spalle larghe, la voce profonda e un parlare pungente che toccava le corde del suo animo assopito.

«Di notte ho paura di inciampare nei tuoi pensieri» gli aveva sussurrato l’Errore l’ultima volta che si erano incontrati.

Dunque, lei stessa era un errore? Così grande da incutere timore?

Lia trasalì. Il suo gatto grigio dalle lunghe vibrisse le era balzato sulle gambe. Il piccolo felino le rubava il calore del fuoco, ma le restituiva un soffio di serenità con le sue fusa.

La ragazza, allora, prese coraggio.

I suoi pensieri balbettavano ancora sillabe confuse. Il corpo, però, sapeva cosa fare. Si alzò, accese la luce, così che nessuno potesse più inciampare per colpa sua.

Uscì finalmente di casa. L’aria, accarezzata da una lieve brezza, le fece accennare un tenue sorriso. Respirò profondamente e si avviò lungo il viale che conduceva nel bosco smagrito. L’estate non lo aveva ancora avvolto nei suoi colori e nelle sue fragranze. Anch’essa appariva sospesa. Il cielo velato assumeva forme fantasiose. In una nuvola diradata, Lia vide il volto dell’Errore. Socchiuse per un attimo gli occhi. Le lacrime bagnarono leggermente le sue guance fredde, rigando la pelle chiara. Si fermarono sul margine della bocca, stretta nella morsa del ricordo. Come petali delineavano lo stato del suo essere, il suono impercettibile della sua voce, il rossore delle sue labbra.

Proseguì. Le sue gambe conoscevano da sole la meta. Da lontano le campane dell’antico campanile ricordavano al mondo che il sole era alto. La sua luce, però, sembrava non voler uscire allo scoperto. Era indecisa, in bilico, come Lia.

Assorbita dal vortice dei suoi verbi, sciolse i capelli. Erano lunghi e ribelli, distanti dal suo umore. Avrebbe voluto avere la loro forza, il loro spessore, la loro energia. Viveva, invece, costretta nell’eterna debolezza.

Un bagno poteva rigenerarla. Si tolse le scarpe e i vestiti. Affondò i piedi nel timido ruscello. L’acqua trasparente le scolorì i cupi pensieri. Era ancora troppo fresca, ma per Lia fu battesimo di rinascita. L’immersione le purificò gli occhi e il cuore, trafitti e corrotti da un mondo bellicoso.

Il suo corpo umido era lì, fermo, dinanzi all’inverno del cosmo, alla vita che scorreva, trascinando con sé uomini e detriti. Si sentiva sola e distante dalle forze peccaminose che governavano le esistenze.

Impotente, strinse la sua anima candida in un abbraccio, per ridonare calore alle sue ossa, ai suoi desideri e a quei sogni violati da dottrine lontane dal naturale modo di agire e sentire. La percezione panica del tutto le era di conforto; le consentiva di superare l’indifferenza dell’universo distante dal destino degli uomini al fronte.

Pensò, allora, ai tanti sguardi innocenti rubati alla vita, alle braccia robuste sottratte alle famiglie, ai sentimenti spezzati e calpestati, alle menti disadorne e inascoltate. La speranza diveniva, così, evanescente come i raggi tardivi, come il suo piccolo borgo dimenticato che, oppresso dalla fitta nebbia, perdeva i confini della propria identità.

Diafano appariva ora anche il suo corpo, sommerso nelle parti più intime. L’inquietudine galleggiava leggera. I suoi tratti fluttuavano insieme alle sottili increspature dell’acqua. Era una danza vaporosa, sfumata come il profilo di Lia nascosto dalle cromie della natura circostante.

Amava la campagna, i distesi paesaggi solitari, i profumi antichi, gli affetti puri e i valori autentici.

Si era trasferita in quel minuscolo borgo ormai da qualche tempo a causa del conflitto, che aveva reso pericolosa la città. Si era abituata a tutto: alle strade sterrate, alla polvere del grano, al gallo dispettoso, al fresco della notte, ai grilli sul cuscino, alle ragnatele decorative negli angoli più nascosti della casa, all’odore del bucato svolazzante nell’aia, alla neve dei pioppi, allo scorrere del rio, alla sveglia della nonna, alle chiacchiere delle comari e alle emozioni suscitate dal potere magico della natura, che facevano le capriole nel suo cuore.

Non era, però, riuscita ad abituarsi alla visione di un ritratto che, nonostante le incutesse paura, l’attraeva.

Lo sguardo di ghiaccio di quella figura misteriosa la seguiva fino a casa e non l’abbandonava. Era terrorizzata dagli occhi penetranti di quello sconosciuto. Appariva all’improvviso non appena si entrava nella piccola cappella diroccata e solitaria, sita lungo la strada che usciva dal paese. Lo spazio, semplice, conteneva lo stretto necessario come le abitazioni di campagna. Poco illuminato, a pianta rettangolare, culminava sul lato corto con un minuto altare spoglio, che anticipava l’abside dagli affreschi ormai poco riconoscibili. A differenza di questi, la figura che tanto spaventava Lia era invece intatta e immobile nell’angolo in alto della parete di destra. Vivente e attenta, imprigionava quanti le passavano sotto gli occhi.

La ragazza si sentiva a disagio dinanzi all’espressione imperiosa di quel fanciullo dai lineamenti perfetti, quasi dolci, che per le ali le ricordava un angelo, ma per il resto era molto più vicino a uno di quei personaggi mitologici che si studiano a scuola. Un dio? Un eroe? Un uomo senza tempo? Si chiedeva chi fosse. Si interrogava sul perché una simile raffigurazione avesse preso posto in quel luogo dimenticato dal mondo. Quale messaggio aveva voluto lasciare agli uomini la mano sublime che aveva realizzato quell’opera?

Il giovane alato dalle pupille inebrianti avrebbe accompagnato i pensieri di Lia per molto altro tempo ancora. Lo amava e odiava allo stesso tempo per essere un mistero irrisolto. Lo aveva scrutato, analizzato e studiato nei minimi particolari, ma l’ingenuità non le aveva permesso di cogliere il dettaglio più importante: il fascio di papaveri rossi che teneva stretto tra le braccia. Fiori, che per lei simboleggiavano il paesaggio bucolico, indicavano invece l’identità di colui che infondeva la pace del sonno nelle genti.

Hypnos, dio potente, ricordava alle menti come volare sulle ali dei sogni, mantenendo sempre viva la libertà interiore. Se il suo proclama fosse stato accolto, avrebbe condotto la giovane donna verso una nuova direzione.

Una mano conosciuta serrò le nude scapole di Lia. Il suo corpo ancora bagnato si irrigidì. Il cuore, invece, lanciò un sussulto. Brividi veloci e intensi le ferirono la schiena.

L’Errore era tornato. Avrebbe trovato la forza per cancellarlo?

Il suo petto implose sotto le braccia che le cingevano ormai la vita.

Le parole soffocarono insieme al tentativo di allontanarsi. Lia non si voltò. Il capo chino e l’esistenza abbandonata lungo i fianchi erano metafora di una svolta evanescente. Il desiderio di voltare per sempre pagina si annullava dinanzi al potere dei sentimenti immutati.

Non avrebbe trovato, almeno per ora, la strada per uscire dal labirinto delle sue passioni. Ancora una volta il segno di Hypnos restava disatteso.

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