Racconto di Alessandra Montali

(Seconda pubblicazione)

 

 

Le dita delle mani si muovono sul manico della zappa.  Stanno suonando la fuga di Bach. Chiudo gli occhi per un attimo. Ascolto la melodia. Un pianoforte suona. La luce del tramonto si riflette sul legno lucido; lì vicino, Mara appoggia con grazia la guancia allo strumento e accompagna le note col violino.

“Lavora, cane! Lavora!” Un grido alle mie spalle mi fa sussultare. Stavo per addormentarmi.  La figura esile e slanciata mi oltrepassa e mi squadra. Abbasso gli occhi sulle zolle disordinate, gli guardo gli stivali, alti, lucidi, di pelle, di certo gli terranno un gran caldo. Mi strappa la zappa e la butta in mezzo al campo.

“Allora, professore, come si sta qui a zappare? Eh come si sta?”  Avvicina la faccia alla mia, gli vedo gli occhi: grigi, vitrei, sanno di morte viva. Il mio viso emaciato si riflette in quelle iridi senza colore.  Sento l’alcool del cognac uscirgli dal ghigno, mi volto dall’altra parte per non vomitare.

“Come osi darmi le spalle?” lo sento sibilare.

Aspetto i colpi e i calci che si abbatteranno a breve su di me. Serro la mascella e rassegnato mi volto, pronto a essere picchiato. Gli occhi fissi sugli stivali lucidi, mi accorgo che c’è un leggero graffio su quello di sinistra.

“Inginocchiati davanti al tuo signore e padrone.” Le parole mi colpiscono come sberle.

Non mi muovo. Alzo lo sguardo su quel viso affilato. Gli occhi sono socchiusi, brillano di pazzia. Lo vedo prendere il frustino che tiene al fianco assicurato alla cintura. Stringo i denti, vedo odio nello sguardo prima del colpo alla base della mia clavicola, pezzo di carne non protetto dalla tuta da lavoro. Non grido, ma le ginocchia si piegano e cado in ginocchio. Lui ride e fa schioccare in alto la frusta. I colpi non mi raggiungono, ma sono vicini e lui continua a ridere. Rimango immobile e mi dico che ora estrarrà la pistola e mi ucciderà, lo so. Affido il mio ultimo pensiero al Signore, per mia sorella, persa chissà dove e mi preparo a morire. Ho assistito ad altre scene come queste, ora sono io il protagonista che muore. Ma perché succede tutto questo? Muoio perché? Chiudo gli occhi e due lacrime mi fuggono, le sento sul viso, sono le uniche gocce pulite in quest’immondizia che è anche la mia terra.

All’improvviso quel suono lacerante e apro gli occhi. I nostri sguardi s’incrociano, lui non ride più, anzi si affretta verso il comando e io corro con gli altri verso qualche riparo. Trovo rifugio in una buca con altri come me, ma loro sono morti da giorni ormai. Alcuni hanno il viso e il corpo nero a chiazze. Mi copro gli occhi con lo scheletro delle mie dita, mi schiaccio contro la parete di terra e mi attappo le orecchie mentre il fischio delle bombe che cadono mi rende pietra. La sirena continua a urlare, ma poi un boato proprio in quella direzione la fa tacere. Mi sporgo e vedo la torretta che arde.

“Sì!” grido con tutta la voce ed esco fuori da quel buco di morte. Alzo le mani al cielo e lo vedo nero di aerei. Nessun’altra immagine mi apre al sorriso come quella. Dal comando stanno uscendo i ladri delle nostre vite. Corrono a prendere le jeep e scappano. Anche i miei compagni escono dai loro nascondigli. Ci abbracciamo tra le lacrime. Non abbiamo più le forze per gridare, l’abbiamo fatto per troppo tempo in silenzio. In lontananza solo scoppi e vediamo una jeep saltare in aria nel fuoco.  Ora un carrarmato sbuca da dietro la costruzione principale, i cingoli fanno un rumore diverso quando entrano nel campo. Indietreggiamo fino al filo spinato. Un uomo alto sguscia fuori, ci guarda, ci alza un braccio e lo oscilla in segno di saluto. Scende e noi ci avviciniamo. Lentamente, senza togliere gli occhi da quell’uomo. Dai tratti non appartiene agli assassini: alto, massiccio, occhi e capelli scuri, ha l’espressione sgomenta nel guardarci.

“I am American. Ok? Can you understand me? “

Conosco quella lingua. Piangendo gli corro incontro e lo abbraccio. Lui mi sostiene e dice ai suoi compagni di portarci da mangiare e di farlo subito.

“Yes, I can.” Gli ripeto fra le lacrime. “You are American, we are….”

Non so chi siamo.

Mi porgono pezzi di cioccolato. Mi perdo nell’odore e aspetto un attimo, prima di morderli. Penso che il Paradiso abbia lo stesso profumo.

***

Il grattacielo si staglia contro il rosso del tramonto. Adoro suonare a quest’ora, anche se la luce non si riflette sul legno lucido del piano. L’ho scelto bianco e opaco. Vicino a me, Mara, mia sorella, appoggia la guancia al violino e mi accompagna. Ha di nuovo i capelli lunghi e folti e, da quando ha conosciuto Robert, non li tiene più stretti nella treccia.

Se non fosse per la bellezza del tramonto avrei paura di quel grattacielo in controluce. Mentre le dita scorrono sulla tastiera lo guardo e se faccio attenzione vedo la trasparenza del vetro delle finestre. Mi dico ogni volta che non è la torretta, è solo un’enorme casa alta abitata da famiglie.

La nostra casa non esiste più, quando sono ritornato in città ho trovato cumuli di macerie. Ho recuperato alcuni tasti del mio vecchio piano che era appartenuto al nonno. Ho trovato tasti neri scheggiati, un solo tasto bianco e poi l’anello che mamma teneva nascosto dentro una finta presa elettrica. Diceva che era troppo prezioso e non voleva rischiare di perderlo o di farselo rubare. L’aveva portato solo in poche occasioni. Papà la rimproverava con dolcezza, ma era soddisfatto che ne avesse particolare cura. Quel gioiello loro non l’hanno trovato. Ho riconosciuto il pezzo di muro che restava della nostra casa e ho trovato quella nicchia, piccola e insignificante per tutti, ma non per me. Ho infilato dentro l’indice e ho capito che l’anello di mamma mi aveva aspettato per tutto quel tempo. Ora splende all’anulare destro di Mara. Ogni volta che aziona l’archetto ammiro la luminosità del diamante e penso a lei. In quel piccolo nascondiglio trovai anche un rotolino stretto stretto di soldi, dentro una bustina trasparente.  Di certo era stata la mamma a mettercelo, quel giorno poco prima che ci venissero a prendere.

I nostri genitori non ce l’hanno fatta. Non abbiamo nemmeno ritrovato i loro corpi, finiti in chissà quale fossa comune. Mi reputo comunque fortunato, ho Mara. Non mi dimenticherò mai quel giorno in cui l’ho rivista: era in piedi dentro lo stanzone del comando. Stava guardando fuori, le ho intravisto il profilo: quel nasino delizioso, all’insù l’avrei riconosciuto ovunque.

“Mara.” Non mi uscì la voce, ma lei si voltò di scatto verso di me.

Stava dentro a un vestitino blu che le cadeva da tutte le parti, mi guardò con gli occhi troppo grandi per quel viso minuto. Avevo vagato interi giorni da un campo all’altro e stavo per perdere le speranze. Ora ce l’avevo a pochi metri, mi sembrava quasi trasparente contro la luce che entrava dalla finestra. Lei mi guardò, battè le ciglia e senza dire nulla mi volò tra le braccia. Strinsi un mucchietto d’ossa, le passai le mani sulla testa e le accarezzai i capelli cortissimi. Pungevano contro i miei palmi, ma nessuna sensazione fu più bella di quella.

Pensai che gli americani fossero arrivati giusto in tempo per mia sorella, non ce l’avrebbe fatta ancora per molto. Restammo abbracciati per alcuni minuti, in mezzo a quella stanza vuota, enorme. Le lacrime parlarono al nostro posto e da quel giorno nessuno di noi due pronunciò più una sola parola su ciò che ci era capitato.

 Ogni tardo pomeriggio, dopo il lavoro, ci ritroviamo a casa a suonare i brani che amiamo di più. Abbiamo aperto una scuola di musica e abbiamo alcuni studenti: bambini, ragazzi e ultimamente anche qualche adulto. Ci siamo ambientati bene, è stato semplice imparare la lingua, già in parte la conoscevamo dai nostri soggiorni estivi in Inghilterra, quando papà e mamma ci spedivano al college a studiare l’inglese. A quel tempo mai avremmo pensato che ci sarebbe servita per ricominciare a vivere.  Ora è la nostra unica lingua. L’accento non è ancora americano, ma col tempo lo diventerà. Suoniamo Bach, l’abbiamo sempre adorato e abbiamo affidato alle sue note i soli ricordi del cuore legati alla terra da cui siamo fuggiti per non tornare più.  Sono le uniche emozioni vibranti di un passato che in silenzio continuerà a perseguitarci. Ogni notte sento Mara gridare nel sonno, nella camera a fianco alla mia. A volte invoca nostra madre. Mi chiedo se anche io faccia lo stesso. So solo che non sogno più da tanti anni e la mattina mi ritrovo rannicchiato, le ginocchia piegate contro lo stomaco. Sto pensando da giorni di andare con mia sorella da uno psicologo, ce n’è uno proprio nel palazzo dove sta la nostra scuola di musica, al secondo piano. Basterebbe salire le scale.

Mi piace andare al parco, a New York ce ne sono tanti. Se non è freddo, approfitto di una passeggiata nella pausa pranzo. Negli ultimi giorni mi accompagna Laura, lavora nella nostra scuola, lei insegna canto lirico, ha una voce da usignolo. Il parco è ancora più bello in sua compagnia. Con un panino in mano passeggiamo nel verde.  Ha un sorriso incredibile, bionda con gli occhi di cielo, è gentile e discreta. Credo che lei abbia intuito la mia storia, il mio cognome racconta da dove vengo. Non mi ha mai chiesto nulla, ma io so che legge e interpreta i silenzi e le malinconie che spesso mi attraversano lo sguardo.

Il verde è così intenso col sole e poi oggi ci sono anche le farfalle. Se ne è posata una proprio ora sul bavero del cappotto di Laura.  Gialla, spruzzata di arancio, sembra una spilla.  Mi dice che lei adora le farfalle.  In quei due anni di morte attesa non ne ho vista una a Mauthausen, nemmeno nell’aria della primavera e neanche col sole dell’estate. Le farfalle in quel tempo erano volate lontane, non credo temessero il filo spinato, ma se solo ci avessero guardati, le loro ali si sarebbero spezzate.

Gli occhi di Laura sono nei miei. Sono certo che sa che io adoro le farfalle. Come lei.