Racconto di Edoardo Santi

(seconda pubblicazione – 14 gennaio 2021)

 

 

Eravamo tutti invitati alla festa. Quel tale stravagante, dai metodi in po’ singolari e inusuali e dotato di un intelletto invidiabile nonché di un certo fascino, che tutti noi, me compreso, conoscevamo come il signor Poe, ci aveva riuniti, un pomeriggio scuro e triste, dove la pioggia batteva senza sosta sui vetri, nel salotto di casa sua, adiacente alla taverna dove solitamente si svolgevano le migliori feste del paese, con del buon vino d’annata e con bellissime dame che amavano sfoggiare i loro gonfi e colorati abiti, per mostrarci la sua ricca collezione di quadri, alcuni dei quali di valore inestimabile.

Si potrebbe benissimo dire che quella festa, organizzata proprio per quella occasione, non fu una delle migliori del signor Poe, anche se era una delle tante che faceva e proprio per questo ci aveva preso ormai gusto, ma fu, le mie parole non vi inganneranno, anche perché un racconto non dovrebbe mai ingannare chi lo legge, la più stravagante di tutte.

Non che fosse un tipo arrogante, intendiamoci, il signor Poe, ma a volte si faceva prendere un po’ troppo la mano, guidato dai troppi eccessi, anche con quegli ospiti riuniti nel salotto, di cui uno fumava allegramente un sigaro seduto su una poltrona vicino al camino acceso e un altro sorseggiava un bicchiere di vino, che il signor Poe aveva direttamente prelevato dalla sua cantina personale, guardando verso il primo quadro d’autore che gli capitava di vedere e chiedendogli il prezzo, o comunque a quanto fosse stimato.

In comune accordo con la sadica moglie, il signor Poe, senza mai dimenticarsi realmente il vero scopo di quella serata e quindi senza divagare troppo in discorsi approfonditi sull’arte, ci spiegò alcune regole che dovevamo rispettare quella sera, senza infrangerne nemmeno una: non dovevamo fare alcuna domanda circa il “gioco”,  così lo chiamava quel pazzo, nessuno di noi doveva mai chiedere nulla dell’altro, nel caso in cui ci fossimo dispersi per la casa e dovevamo mantenerci dentro le nostre stanze, affinché potessimo affrontare le nostre paure più nascoste, quelle più nere.

A quel punto, il terrore cominciò a scivolarmi addosso, sotto forma di sudore, che mi causava dei pruriti incontrollati sulla pelle. Ne sentivo il peso schiacciante sul cuore, come una lama fredda che mi attraversava e ne sentivo il gelido respiro dietro di me. Ma non dovevo lasciarmi dominare dalla paura, già prima che tutto iniziasse.

Eppure essa era l’unica compagna che riuscivo ad avere, in quel momento della sera. Si era fatto tardi, ecco perché parlo di sera, ed il signor Poe, controllando con lo sguardo che le stanze fossero ben chiuse a chiave, ci diede le ultime informazione da seguire, prima di dileguarsi con la moglie chissà dove.

Il signor Poe aveva sempre amato fare quattro chiacchiere con gli amici, ma a volte si lasciava andare a qualche vizietto di troppo e amava circondarsi in casa, durante le sue mondane feste, di belle signore e di persone poco raccomandabili, come quel tale signor F., che non avevo mai visto prima, ad insaputa della moglie.

Essendo un appassionato di filosofia, di morale e di belle donne, si interrogava spesso su come l’animo umano fosse così tristemente corruttibile e come le passioni terrene, quelle carnali s’intende, a volte prevalessero sull’animo di qualsiasi uomo, anche quello di solidi principi, come il signor Poe. E lui ne andava fiero di definirsi un corrotto, un peccatore.

Tuttavia, suo malgrado, non era un filosofo. Anzi, era un cultore dell’assurdo, un commediante del grottesco.

Lo descriveva, mentre poggiava il bicchiere di vino sul tavolo, come un gioco sensoriale, un gioco dei sensi per meglio dire, dove noi tutti, escluso ovviamente il signor Poe, dovevamo affrontare le nostre più viscide e tetre paure, i nostri terrori puerili, o le nostre innocenti angosce. Dovevamo affrontare ciò che non eravamo in grado, in nessun modo, di fronteggiare, perché nessuno mai ci aveva posto davanti le nostre paure.

Il signor Poe parlò poi di sfida oltre che di gioco. La descrisse come una “sfida” con noi stessi, o forse mi conviene dire contro noi stessi. Mi meravigliò quando utilizzò, in più frasi, il termine psicologia, per descrivere quello che avremmo dovuto aspettarci.

Fuori la pioggia aumentava, sempre più forte, fino a far scomparire del tutto i rumori della natura che circondavano la casa, quella notte. La pioggia ruggiva e la mia paura anche.

Non tenendo conto dell’eccentrico signor Poe, che ora si era arrestato sulla soglia a dare un’ultima occhiata alle sue opere d’arte, non so dirvi per quale strano motivo, io mi trasferii nel corridoio, dove c’erano le stanze. Tutti gli ospiti mi seguirono, portandosi dietro la loro perplessità mista a paura, che poi si sarebbe trasformata in terrore puro, dipinta negli occhi quasi allucinati, eccetto una donna che restò nel salone ad ammirare le opere, come ipnotizzata dai volti spaventati dipinti nel quadro. Aveva gli occhi sgranati, le mascelle spalancate, come se avesse visto qualcosa che la catturava enormemente. Qualcosa nel buio dei paesaggi di quel quadro, estremamente realistici, tanto da sembrare che quella stanza fosse avvolta da quel bellissimo panorama ritratto.

Vide inoltre, non conoscendo l’esecutore di quell’opera (il signor Poe aveva detto che era di un autore sconosciuto), che dietro un cespuglio, dipinto a regola d’arte con rapide pennellate, tanto che dava l’impressione di una gran confusione di colori, era dipinto, che sbucava dai rami, una creatura che dal signor Poe non fu mai identificata, se non con varie ipotesi: forse un piccolo diavoletto era raffigurato, o comunque una qualsiasi creatura del male.

Le forze del male erano spesso raffigurate nei quadri e per questo il signor Poe ne fu affascinato: non riuscì mai a dare un volto a quella misteriosa creatura che dimorava lì dentro.

La signora nel salone, che poi scoprimmo si trattasse di un’aspirante attrice di teatro, era immobile a fissare il quadro, con sguardo talmente rapito che sembrava quasi allucinato.

Nel vederla, il terrore m strisciò addosso. Un terrore collettivo fu preda degli ospiti, talmente violento e angoscioso che gli occhi stessi della donna, che ora cominciavano anche a lacrimare lentamente, lo trasmettevano: uno sguardo privo di calore, ma pieno di paura, uno sguardo sconvolto da ciò che vedeva.

Ma cosa, esattamente, vedeva? La cosa peggiore era proprio quella: non riuscivamo a capire cosa vedesse.

Era debole, in quel momento, senza forza nei muscoli. Tanto che io le andai incontro e la scossi da un braccio, prima piano poi forte, ma non abbandonò mai quella posizione. Era veramente spaventata, tanto che nel toccarla avvertii un senso di gelo scorrermi veloce nel braccio.

Non potendo svegliarla, caduta in uno stato perenne di trance dovuta a quel quadro, io mi inoltrai nelle “stanze”, come le aveva chiamate il signor Poe.

Più volte il terrore mi fu descritto, da amici e da parenti appassionati di cose macabre, come un gelo perenne che ti attraversa il corpo, come una scossa ed io, proprio in quel momento che pareva interminabile ai miei occhi e nel quale io, nelle mie condizioni attuali, mi sentivo più vulnerabile e piccolo di fronte alla mia paura, lo percepii chiaro come ora sento la paura dinanzi a me.

Mi feci comunque coraggio. Mi avventurai all’interno di quella stanza, che il signor Poe si era incaricato di aprire, mettendo la chiave in un apposito mazzo che teneva in tasca, come poi fece con le altre porte, seguendo la stessa procedura.

Il terrore mi saliva dalla gola, eppure entrai. Mi fu concesso, per amor di Dio, qualche minuto di tregua prima che il terrore che mi invadeva la mente si parasse davanti a me. Inizialmente, vidi una distesa di buio.

Poggiai le mani sulle pareti: erano lisce, quasi viscide. Ma poi, quando le luci si furono accese nella stanza, vidi un’enorme parete interamente coperta di specchi, che giravano per tutto il perimetro della stanza. E dentro quegli specchi, dalla superficie estremamente piatta, si rifletteva la mia figura deformata, priva di una qualsiasi forma, come una fotografia sfocata.

Il mio aspetto, nella realtà, era intatto, ma nello specchio si rifletteva la deformità della mia anima, la paura inconscia che ora mi si presentava sotto forma di mostro informe e indefinito.

Mi sentivo come se la mia anima fosse esposta alla bruttezza e alla vergogna, prendendo sia la mia coscienza che il mio corpo. In ogni parete, in ogni specchio, apparivo deformato.

E anche il mio terrore era deformato, gelido. Lo percepivo dal sudore che mi colava sugli occhi e dal freddo angosciante che sentivo sulla pelle.

In seguito poi, uscendo da quell’infernale stanza, appresi che uno dei poveri malcapitati lì presenti, nel salotto del signor Poe, aveva assistito ad un’esperienza ben più sconvolgente: la sua stanza, che avrebbe dovuto riflettere una sua paura angosciante, tanto che gli avrebbe preso il cuore, era totalmente e inspiegabilmente vuota. A paragone della mia, in essa la paura sembrava assente, ed essendo vuota, la stanza pareva riflettere la sua anima arida e priva di paure terrene. Come se avesse paura della solitudine, dell’assenza di qualsiasi cosa.

Quello che mi fu detto dall’altro ospite mi istillò il terrore dentro: la sua stanza era completamente rossa, come se fosse imbottita di pelle che rimandava al colore del sangue. Fu quello che più mi angosciò, che più terrorizzò la mia mente già debole e vacillante, facendomi sentire il gelo di cui parlavo prima.

Orribilmente palpabile.

Se poteva riflettere le nostre paure nascoste, allora perché l’ultimo ospite aveva visto la stanza dipinta di rosso? Cosa rappresentava quella paura? Forse era uno scherzo architettato dal signor Poe, apposta per spaventarci.

“Tu hai paura dell’omicidio”, disse l’ospite parlando a sé stesso.

Quelle stanze erano la distorsione delle nostre anime, la deformità delle nostre più profonde angosce, il posto in cui veniva commesso l’omicidio delle nostre coscienze.

Una quarta stanza non c’era: apprendemmo, in seguito, che proprio la quarta angoscia a cui tutti noi eravamo sottoposti era proprio lì dietro di noi. Dovevamo assistere, col terrore che superava ogni nostra aspettativa, all’incubo di vedere la nostra ospite fissare quel dipinto con occhi che non avremmo mai immaginato di vedere.