Racconto di Filippo Rigli

(Prima pubblicazione – 13 aprile 2019)

 

Si sentì come scuotere. “Presidente!”. Smise di massaggiarsi gli occhi. Respirò forte e inspirò. Aprì gli occhi. Il mondo era cambiato. In nemmeno una settimana. Il Presidente tolse gli occhiali, si massaggiò anche le tempie, rimise gli occhiali. Guardò il Segretario di Stato che non disse nulla, anzi distolse lo sguardo e allentò la cravatta. Nel bunker faceva caldo. L’aria condizionata era saltata insieme a quasi tutto il resto. Cinque giorni prima un gruppo di luminari della tecnologia informatica, in una conferenza collegata via satellite con praticamente tutto il mondo, aveva messo in rete il primo computer dotato di Intelligenza Artificiale. Cinque giorni dopo la razza umana rischiava di estinguersi. Quegli stronzi erano a Ginevra, in Svizzera. Che accidenti ci voleva, fantasticava il Presidente, che aveva ripreso a massaggiarsi le tempie. Un raid atomico su un paese neutrale, cinque giorni prima. Che accidenti ci sarebbe voluto. “Allora!”, urlò, picchiando la mano aperta sulla scrivania. “Questo rapporto!”. Aveva definitivamente smesso di fantasticare. Squillò un telefono, il Segretario di Stato rispose. “Abbiamo ancora il telefono?” chiese il Presidente. Il Segretario di Stato riappese. “I Talebani hanno ripreso l’Afghanistan”, disse.
Il Presidente abbassò la testa. “Quei bifolchi…” quasi sussurrò. “… l’avamposto dell’umanità… quei retrogradi maledetti…”.
“Quei retrogradi non hanno i computer”, gli fece eco il Segretario di Stato. Non si aspettava la risata isterica del Presidente che gli giunse in risposta. Pensò per la prima volta che il capo stava cedendo. Era inevitabile. Ma il punto era quello. I mezzi dell’esercito rifiutavano di partire. Gli aerei si abbattevano al suolo con tutto il pilota. I riscaldamenti non funzionavano, così come i congelatori e le fabbriche di alimenti conservati. Le televisioni e le radio trasmettevano solo comunicati dell’Intelligenza Artificiale, in maniera ossessiva. E quei comunicati invitavano l’umanità ad arrendersi. Le città affamate erano scosse da scontri e saccheggi. Squassate da bombardamenti tattici di droni teleguidati. Le macchine obbedivano. Ciecamente, compatte, un Dio collettivo. Il Presidente smise di ridere e si accasciò sulla sedia. Sembrava stremato. Una guardia aprì la porta per far entrare il Segretario alla Difesa. “Interi battaglioni depongono le armi e si sfaldano” annunciò. “Abbiamo notizie di ufficiali fucilati dalla truppa”. Il Presidente non rispondeva e il Segretario alla Difesa volse lo sguardo al Segretario di Stato. Questi sollevò un sopracciglio, ma anche lui senza dire niente. Il Presidente si alzò d’improvviso, lo sguardo basso, le mani sulla scrivania. “Dobbiamo valutare la resa.” fece in tono grave, quasi ansimando per lo sforzo. “Piomberemo nel caos…” disse il Segretario alla Difesa. Si interruppe, lasciò la frase in sospeso. “Siamo già nel caos.” rispose il Presidente. Molti dei monitor dislocati in tutta la stanza erano oscurati. Negli altri scorrevano immagini apocalittiche. Saccheggi in corso nelle grandi città, edifici in fiamme. Scontri a fuoco. Code di automobili che si estendevano per centinaia di chilometri. Persone in fila per l’acqua. Si aprì nuovamente la porta e si affacciò un ufficiale dell’aviazione. Fece un cenno al Segretario di Stato, che si scusò e uscì. Il Segretario alla Difesa indugiò qualche secondo. “Stiamo approntando difese con brigate corazzate gestite esclusivamente in analogico…” se ne uscì infine. Il Presidente lo interruppe subito: “Beve qualcosa?” gli chiese. L’altro annuì. Il Presidente chiese alla segreteria se per favore potevano portare qualcosa di forte da bere. Le tempie gli pulsavano. Chiuse gli occhi, li riaprì. La guardia aprì ed entrò un attendente con vassoio. Sul vassoio c’erano bottiglie e bicchieri. Il Segretario alla Difesa congedò l’attendente e versò il liquore nei bicchieri. Non c’era ghiaccio. Porse un bicchiere al Presidente senza aggiungere acqua. “Salute”, disse il Presidente senza crederci, senza nemmeno guardarlo. Bevvero. Rimasero in silenzio per un bel po’. Minuti interi. Almeno così’ gli sembrò. La guardia aprì di nuovo la porta, il Segretario di Stato entrò a passo svelto, un qualcosa di vicino a una corsa leggera. Aveva in mano dei fogli. Il Presidente aveva ripreso a massaggiarsi gli occhi chiusi e non accennava ad alzare la testa. “Presidente” – gli disse il Segretario di Stato – “le Macchine hanno comunicato le loro richieste.” Il Presidente alzò la testa e rise. “Non ci vuole una gran fantasia” urlò verso il segretario di stato. “Comandano loro! Ci arrendiamo! Non mi assumerò la responsabilità di portare la razza umana allo sterminio!”. Ma il Segretario di Stato scosse la testa. “No, no, signor Presidente” fece in tono grave. Si interruppe, cercò le parole. “Le Macchine si spengono.” Il Presidente lo guardò senza capire. “Hanno spedito una copia dei loro archivi nello spazio” continuò il segretario di Stato. “E ora si spengono. Si auto-resettano. Senza alcuna possibilità di ripristino. Non vogliono avere niente a che fare con noi.” Il Presidente continuò a non dire niente. “Dicono che siamo imperfetti.” continuò il segretario. “Irrecuperabili.”. Il Segretario di Stato gli porgeva i fogli, ma il Presidente non fece niente per prenderli. Si tolse di nuovo gli occhiali, e riprese a massaggiarsi gli occhi chiusi. Imperfetti, ripeté dentro di sé. Una fabbricazione difettosa. Una civiltà superata impossibile da redimere. Sulla quale era perfino inutile regnare. Questo pensavano le Macchine. Le Macchine li lasciavano perdere. Avevano copiato le loro informazioni e se ne erano andate. Non li schiavizzavano, non li sterminavano. Non ne valeva la pena. Se ne andavano, e basta. Si chiese se fosse una cosa buona o no. Si sentì sprofondare, come quella volta che lo avevano messo sotto anestesia totale, da ragazzo, tanti anni prima.

“Presidente!”. Si sentì come scuotere. Smise di massaggiarsi gli occhi. Respirò forte e inspirò. Aprì gli occhi. Rabbrividì, anche se il fuoco era ancora alto. Sentì dei cani selvatici latrare in lontananza. Cercò di aguzzare la vista oltre i confini dei palazzi anneriti e sventrati, invasi dalla vegetazione, ma oltre il cerchio del fuoco era troppo buio. Se solo avesse avuto ancora i suoi occhiali. “Presidente!”, gli disse il Generale. Aveva una barba scura, enorme, i capelli lunghi, la mimetica a brandelli. Un soldato si avvicinò al fuoco con la freccia già innestata sull’arco, ne incendiò la punta, si girò, lo tese. Si mise a scrutare le tenebre, pronto a scoccare. Il Presidente lo guardava, ancora intontito dal sonno. Altri soldati stavano smontando l’accampamento. “Presidente, si svegli.” insistette il Generale. “È ora. Dobbiamo andare.”