Racconto di Liliana Vastano
(Seconda pubblicazione – 23 agosto 2019)
Arrivavano sempre con un macchinone verde pisello che compariva all’improvviso nel cortile del palazzo di Corso Giannone, a Caserta, in cui abitavamo. Nonostante la grandezza spropositata, l’auto non dava fastidio a nessuno per il semplice fatto che nessuno dei condomini possedeva un’automobile seppur piccola. Erano gli anni Cinquanta, gli italiani si spostavano ancora in lambretta o bicicletta e i proprietari delle quattro ruote erano come le mosche bianche. In verità le cugine non arrivavano proprio dall’America ma dalla Germania dove il padre, zio George, militare americano, prestava servizio. Questa parentela era la diretta conseguenza delle vicende belliche che avevano condotto in Italia le truppe americane che erano venute a liberarci dai nazifascisti. Una sorella di papà che si chiamava Rita, come tante altre ragazze italiane, si era fidanzata con un ufficiale americano conosciuto al Quartier generale delle truppe alleate dove lei lavorava come telefonista, poi lo aveva sposato. Dopo qualche anno negli USA, zio George aveva chiesto il trasferimento in Europa per dar modo alla moglie di riabbracciare la famiglia e far conoscere ai nonni italiani le due nipotine: Virginia e Barbara. Le cugine, quindi, avevano per metà sangue italiano. Arrivavano sempre intorno alla metà di giugno. Quando si avvicinava il periodo dell’arrivo, tutte le mattine mia sorella ed io, appena alzate, correvamo sul terrazzo per verificare se per caso il macchinone fosse già parcheggiato in cortile. Eravamo elettrizzate perché il loro arrivo apriva ai nostri occhi e ai nostri palati un mondo meraviglioso fatto di colori e sapori a noi sconosciuti, a cominciare dallo sciroppo di acero che veniva versato sulle frittelle della prima colazione e il cui profumo arrivava fino a casa nostra dove la prima colazione si faceva con latte, orzo e biscotti Colussi che, per l’epoca, erano già un lusso. Le cugine erano una bruna e l’altra bionda. La bruna, Virginia, mia coetanea, aveva i colori mediterranei della madre mentre Barbara, di tre anni più giovane, era di carnagione chiara come il padre, americano di origine polacca. Mia sorella ed io indossavamo per casa vestitini di cotone e sandaletti provenienti, in gran parte, dal mercatino rionale di cui mia nonna era assidua frequentatrice. Loro, invece, erano sempre in pantaloncini corti e maglietta con scarpette sportive del tipo Superga che abbiamo noi oggi ma di cui, all’epoca, noi non avevamo idea. Di pomeriggio, invece, dopo la “doccia quotidiana” nel bagnetto di mia zia e dopo aver asciugati i capelli col phon, all’epoca oggetto poco diffuso, indossavano dei bellissimi vestitini di stoffa sintetica dai colori più svariati, con sottogonna in tulle che a noi sembravano meravigliosi. Quando andavano via, ne lasciavano sempre qualcuno anche a noi. Un anno, oltre ai vestiti, ci lasciarono anche la “varicella americana” che ci rovinò l’estate. Quello della doccia era uno dei tanti problemi che si ponevano quando arrivavano “gli americani” perché né in casa nostra né in casa di mia zia c’era acqua calda corrente per cui, quando arrivavano e per tutto il periodo della permanenza, c’era un continuo via vai di pentoloni d’acqua messi a riscaldare sui fornelli a gas. Qualche giorno dopo l’arrivo, si verificava un altro evento molto atteso: la spesa nel “supermarket” luogo a noi sconosciuto. Mia zia e il marito si recavano alla NATO di Bagnoli per approvvigionarsi dei prodotti che loro mangiavano abitualmente e che nei negozi italiani non si trovavano. Loro apprezzavano la nostra cucina ma le figlie no, quindi, bisognava provvedere. A Bagnoli andava anche mio padre ma giusto per indicare loro la strada perché, essendo italiano, non poteva entrare ed aspettava nel macchinone. Quando tornavano, avevano tre o quattro bustoni di carta pieni di ogni ben di dio e numerose cassette di birra che beveva soltanto lo zio americano. A noi regalavano la crema di “pinozze” in confezione da 1 Kg (che girava in casa per mesi), barattoli di marmellata, tavolette di cioccolato, scatolette varie di carne e pesce, bottiglie di latte, caramellone morbide che si mettevano nel latte al posto dello zucchero, pane in cassetta, scatole di biscotti made in USA, lattine di birra e, naturalmente, chewingum. Insomma si mangiava un po’ all’americana per qualche settimana perché, dati i tempi, mamma non buttava via niente. Nonostante parlassimo due lingue diverse noi cugini italiani riuscivamo sempre a giocare e a divertirci con le americane che sentivano molto la mancanza della TV che noi ancora non avevamo. Giocavamo a mosca cieca, a nascondino, allo schiaffo, con i pattini, alla campana, a truccarci con matite e rossetti della zia americana. Loro imparavano presto anche le canzoni italiane che trasmetteva la radio e cantavano insieme a noi. Grazie a loro, ho visto il mare per la prima volta. Era il mare di Miliscola, riservato ai militari USA. Gli italiani non potevano entrare ma i controlli non erano severi per cui zio George, a turno, portava me, mia sorella e i figli di mia zia. Qualche volta veniva anche mio padre ed erano tutti preoccupati che non lo facessero entrare perché era basso e bruno mentre tutti gli altri erano alti, biondi e con i capelli quasi rasati. Appena arrivati, zio George ci comprava un panino con hamburger e salsa piccante che per noi era una novità. Oltre che andare al mare, gli americani andavano anche sul Matese, a Napoli, sul Vesuvio, a Pompei, a Sorrento portandosi sempre, a turno, i loro parenti italiani ancora sprovvisti di automobile. Qualche giorno prima della partenza noi bambini rimanevamo a casa con i nonni ed uscivano solo gli adulti, ovviamente con il macchinone. Al ritorno, portavano sempre i dolci per tutti. Le cugine tornarono in Italia anche nel giugno del 1957 e, come al solito, ripartirono a fine mese per la Germania. Sarebbero state le loro ultime vacanze italiane ma nessuno, all’epoca, poteva immaginarlo. Durante l’inverno ci arrivò la notizia che il padre era stato richiamato negli USA. Nel giro di qualche settimana, lasciarono la Germania e volarono in America andando ad abitare ad Huntsville, Alabama. Una delle due non l’avrei rivista più.
Da allora in poi, periodicamente avevamo notizie degli americani attraverso la posta “Air Mail” che arrivava a mia nonna. Erano delle buste bianche leggerissime con il bordo rosso e blu a cui si rispondeva sempre “Air Mail” con buste altrettanto leggere con il bordo rosso e verde. Le cugine, dopo le scuole medie, andarono al college e, mentre noi in Italia provavamo le prime emozioni con i dischi di Rita Pavone e Gianni Morandi, loro già avevano il boy friend che andava a prenderle a casa per trascorrere la serata in qualche locale. Erano almeno vent’anni più avanti di noi. Pian piano, però, cominciava a cambiare anche la società italiana e, oltre alla TV, arrivarono: il telefono, l’automobile, lo scaldabagno, il phon, i tessuti sintetici e, in ultimo, i supermercati. In pratica, almeno per quel che riguarda i consumi, ci stavamo “americanizzando” anche noi. Gli zii d’America tornarono in Italia altre volte in aereo e tutta la famiglia, ormai provvista di auto, andava a prenderli a Fiumicino. Venivano sempre da soli, le figlie avevano la loro vita di cui sapevamo ben poco. Col passare degli anni, queste visite si diradarono fino a finire del tutto per raggiunti limiti di età. Delle cugine si avevano notizie vaghe, erano solo un ricordo di un periodo felice che la loro presenza, in alcuni momenti, aveva reso speciale, indimenticabile. A noi bambine piaceva tutto di loro, sembravano uscite da un libro di favole e, se fosse stato possibile, volentieri saremmo diventate americane anche noi.
Qualche anno fa, inaspettatamente, Barbara mi telefonò e, in un italiano un po’ stentato, comunicò che sarebbe venuta in Italia, nella nostra città, per un breve periodo di vacanza. Mia sorella ed io, sorprese e anche un po’ emozionate, decidemmo di andare insieme all’aeroporto ad accogliere lei e il marito. Per motivi di traffico e poi di parcheggio, arrivammo in aeroporto un po’ più tardi dell’ora prevista. Mentre ci aggiravamo preoccupate nella zona arrivi, ci sentimmo chiamare: era Barbara. In effetti solo il colore dei capelli sollecitava la nostra memoria perché tutto il resto non ci apparteneva. Ci trovammo davanti una signora anziana un po’ in carne, con un jeans stazzonato, una maglietta rossa e una borsa da viaggio di plastica nera. Dopo esserci salutate con un po’ d’imbarazzo, le facemmo togliere immediatamente dal collo la catenina d’oro con il crocifisso e gli altri gioielli che aveva indosso perché facevano tanto “american tourist” e ci avviammo alla volta dell’albergo. Il marito ci osservava con aria perplessa. A fine giornata, riflettendo sull’evento e sulle emozioni che avevamo provato, mia sorella ed io convenimmo sul fatto che quella signora bionda un po’ in carne aveva definitivamente archiviato quell’aureola di magia che aleggiava sul ricordo delle cugine americane. Durante tutto il periodo della sua permanenza in Italia, Barbara, oltre a girare per monumenti e siti archeologici, volle mangiare “italiano” e si rimpinzò di pizze, pastasciutta, “fisch food”, babà e sfogliatelle. Quando andò via, almeno dal punto di vista culinario, era diventata italianissima ed anche l’abbigliamento era nettamente migliorato visto che volle acquistare abiti e borse nei negozi abitualmente frequentati da noi. Quando riaccompagnammo all’aeroporto lei e il marito, ci lasciammo con la promessa che sarebbe ritornata presto e che, insieme, avremmo trascorso una giornata al mare, ovviamente al mare di Miliscola, come quando eravamo bambine. Questo evento ancora non è accaduto e chissà se accadrà mai, forse meglio così. Nel nostro immaginario le cugine americane resteranno per sempre due bambine magiche che arrivavano in un giorno d’estate con un macchinone verde pisello e ci facevano tanto sognare, qualche barattolo di marmellata, tavolette di cioccolata, bottiglie di latte e cacao, delle buste di “caramellone” morbide che si usavano nel latte al posto dello zucchero, il pane in cassetta, buste di biscotti e, ovviamente, chewingum. Per qualche settimana, quindi, si mangiava un po’ all’americana perché mia madre, dati i tempi, utilizzava tutto. I rapporti fra noi cugini italiani e le due americane erano molto buoni, nonostante parlassimo due lingue diverse. Come tutti i bambini, avevamo trovato un modo di intenderci e di divertirci, soprattutto quando andavamo al mare che io ho visto per la prima volta grazie a loro. Il mio primo mare è stato quello di Miliscola riservato ai militari USA. Andavamo col macchinone, facendo a turno perché eravamo in molti e né mio padre né l’altra sorella possedevano un’automobile. In teoria era vietato l’ingresso agli italiani ma, trattandosi di bambini, non ci si faceva caso. Quando andavamo io e mia sorella ci accompagnava anche papà e c’era sempre il pericolo che non lo facessero entrare perché era basso e bruno in contrasto stridente con il cognato americano alto, biondo con i capelli a spazzola… Appena arrivati, lo zio ci comprava sempre dei panini con hamburger e salsa piccante che da noi non si trovavano ma, mentre le mie cugine “mangiando mangiando” si buttavano in acqua, noi dovevamo aspettare un tempo infinito prima di bagnarci. I parenti americani andavano spesso a Napoli, a Sorrento, sul Matese. Ogni volta che facevano queste passeggiate, portavano, a turno, i parenti italiani ancora sprovvisti di automobili. C’era un giorno, però, in cui i bambini rimanevano a casa con i nonni e i genitori uscivano tutti insieme col macchinone. Al ritorno, portavano sempre dolci per tutti. Quando questo accadeva, sicuramente da lì a qualche giorno sarebbero andati via. Successe così anche a fine giugno del 1958.Non ci sarebbero state più vacanze in Italia per le cugine americane ma nessuno avrebbe potuto immaginarlo. Qualche mese dopo essere tornate in Germania, zio George fu richiamato negli USA.
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