Racconto di Elisa Mantovani

(prima pubblicazione – 14 ottobre 2020)

 

 

Aspetto.

Chiudo gli occhi: tutta questa luce mi infastidisce e poi, così, posso immaginare di riabbracciarla.

La vedo esattamente come l’ultima volta: le belle labbra aperte in un sorriso che avrebbe fatto impallidire questo sole sfrontato; i suoi occhi, una fonte inesauribile di dolcezza e serenità.

Aveva un vestito giallo, i capelli raccolti in una graziosa coda di cavallo e una piccola valigia. Gliel’avevo regalata io e, sorridendole, le avevo detto che era troppo piccola per contenere tutti i suoi sogni.

Aspetto e ripenso alle parole che ci eravamo detti quella mattina; parole banali che, nel corso degli anni, hanno assunto un valore profondo, vitale. Sento ancora la sua voce allegra, la sua risata, il suo profumo.

Ho provato a dimenticare ma è inutile: in ogni luogo in cui ho cercato di nascondermi c’era sempre una stazione. Sono arrivato in paesi dimenticati da Dio sperando di trovare un po’ di pace, e Dio non c’era davvero in quei posti, perché se così fosse stato non vi avrei trovato stazioni ma campagne sconfinate, silenzi infiniti.

“Ti chiamo appena arrivo” mi aveva detto Nina prima di uscire di casa e scomparire per sempre.

Ero contento allora, pensavo alla settimana che mi aspettava: la televisione tutta per me, qualche birra con amici che non vedevo da tempo.

Se solo avessi saputo…

Quella solitudine che tanto agognavo è diventata la mia dannazione.

Non ho più guardato la televisione e non ho mai più messo piede in un bar: nulla ha avuto più senso da quando se ne è andata.  Solo il suo ricordo mi ha tenuto in vita.

Eccomi seduto in una panchina, di fronte ai binari, in un paese di cui nemmeno ricordo il nome, ad aspettarla come avrei dovuto aspettarla al suo ritorno: avrei preso la sua valigia, l’avrei stretta forte e mi sarei fatto travolgere dalla fresca cascata di spensieratezza dei suoi racconti.

Aspetto come ho aspettato quella telefonata, finché il mondo mi si è sgretolato addosso.

Non prendo le medicine per il cuore da settimane.

Oggi è il 2 agosto eppure sento freddo, tanto freddo; si è impossessato del mio animo da quel 2 agosto del 1980, quando la bomba ha spazzato via il sorriso che illuminava la mia vita.

Qui non c’è nessuno, meglio: sono stanco degli sguardi, dei sorrisetti che fanno quando mi vedono con la giacca, le scarpe pesanti. Penseranno sia un matto e in fondo hanno ragione, ma il freddo che provo è talmente forte da non farmi sentire più nulla.

Sono pazzo di dolore: mi ha corroso l’animo, relegandomi in un angolo di una società a cui non appartengo più.

Una fitta mi attraversa il petto, mi toglie il fiato: non respiro.

Stringo gli occhi, appoggio la mano sulla gamba e diventa tutto buio.

“Ciao papà!”

Nina: la sua voce mi accarezza il viso. Spalanco gli occhi e mi è di fronte, mi sorride: ha il vestito giallo, i capelli raccolti nella graziosa coda di cavallo e la piccola valigia nella mano destra.

“Non avrai più freddo adesso, te lo prometto” e si avvicina, abbracciandomi; sento il suo profumo, il suo calore e inizio a ridere mentre lascio finalmente la stazione: la mia lunga, straziante attesa finalmente è finita.