Racconto di Pier Franco Luigi Fraboni
(Prima pubblicazione – 15 aprile 2020)
Il finestrino del tram era freddo, Irsa questo lo aveva notato sin da subito e nonostante l’evidente scomodità, decise comunque di appoggiarci la testa per godere della sensazione di fresco, particolarmente piacevole in un tipico pomeriggio afoso nel centro di Roma. La mamma Jaesa, seduta vicino a lei, la guardava con tenerezza mentre la sentiva canticchiare una melodia malinconica. Irsa non era più una bambina, era diventata ormai una ragazza di 14 anni che da tempo aveva timidamente imboccato la tortuosa via dell’adolescenza. Jaesa sapeva del periodo delicato di sua figlia, per questo aveva deciso di lasciarle i suoi spazi, di aspettare che fosse lei ad aprirsi. Con il passare delle fermate, il tram si era riempito, l’aria condizionata si sentiva a stento in un mezzo che di nuovo aveva solo le insegne per le uscite di sicurezza. Il velo, così tante volte indossato, iniziava a pesare sempre di più, le lacrime di sudore delle due donne si assorbivano nelle pieghe di quell’indumento, ma prima di terminare la loro corsa, solcavano visi molto simili, dai lineamenti delicati quasi impercettibili. Gli occhi e i capelli di entrambe, neri come l’ebano, risaltavano su dei visi olivastri densi di dignità e dolore. Le due donne, sempre più impazienti e stanche, sopportavano a stento una tale situazione, consolate solo dal fatto che per la loro fermata non mancava altro che una manciata di minuti.
Le porte si aprirono, le due uscirono e senza proferire parola, seguirono l’indicazione del cartello riportante la dicitura: “Viale Aurelia”. Il rapporto tra madre e figlia si era leggermente incrinato da poco più di una settimana, da quando Jaesa aveva portato a casa un volantino pubblicizzante l’imminente scadenza delle iscrizioni per un centro estivo. Irsa, non voleva partecipare, non amava lasciare la madre sola, odiava uscire di casa, si era chiusa in sé stessa perché il mondo che vedeva non le apparteneva. La madre al contrario, si adoperava con impegno e dedizione affinché la figlia, da troppo tempo l’ombra di sé stessa, si aprisse a questa nuova vita che le aveva travolte e inebriate da poco più di un anno. Il rispetto che Irsa portava a sua madre la portò ad accettare l’esperienza del centro estivo, ma questo non comportava che le dovesse piacere per forza. Non fece nulla per far sembrare gradita tale opzione, rispondendo alla madre solo per il necessario, sorridendo il meno possibile. Nonostante la reazione della figlia, Jaesa era conscia in cuor suo che il centro estivo avrebbe potuto far bene a Irsa e soprattutto le avrebbe dato la possibilità di creare legami di amicizia, lontano ricordo da quando le due erano arrivate in questo paese così distante dal loro.
I san pietrini del viale scottavano, i sandali delle due donne che si intravedevano ai piedi delle vesti, sembravano attaccarsi al suolo ad ogni passo. Roma d’estate è una città rovente, ma quel giorno il caldo superava ogni immaginazione. Il lento procedere di madre e figlia fu interrotto dalla visione dell’insegna dell’ufficio registrazione per il centro estivo, dopo un sospiro di sollievo, le due si accinsero all’entrata. Jaesa, spingeva con forza sulla lunga maniglia antipanico della porta di accesso ma, nonostante l’impegno, la porta accennava solo dei minimi spostamenti. Jaesa a differenza di Irsa, non si era accorta della donna alta, dai capelli biondi che accanto a lei tirava la maniglia, notò la sua presenza solo nel momento in cui l’indispettita figura le si rivolse con tono deciso esclamando: “Ma non vede che c’è scritto tirare!?”. Jaesa alzò gli occhi e vide la donna, fu colpita dall’eleganza della stessa. Una camicia bianca risaltava nel completo nero che ricopriva quella figura femminile, così arcigna a prima vista.
Il viso della donna era corrucciato, gli occhi azzurri scrutanti Jaesa e Irsa avevano un qualcosa di penetrante, di giudicante, era impossibile non notarli. Jaesa interdetta dalla visione, rimase per qualche secondo senza parole, la donna che non aveva da perdere tempo, si mise davanti a Jaesa e con fare deciso tirò a sé la porta ed entrò nell’ufficio. In questo veloce procedere, Jaesa si riprese ed entrò subito dietro alla donna insieme ad Irsa e ad un’altra ragazza. Quest’ultima era sopraggiunta correndo e prima che la porta si chiudesse era riuscita ad infilarsi dentro l’ufficio. La ragazza appena entrata si avvicinò alla donna dall’affascinante aspetto e con un leggero fiatone le disse: “Certo che mi potevi aspettare, appena siamo usciti dalla metro sei schizzata via, quasi correvi, ti stavo perdendo tra il tumulto della gente, si può sapere che fretta hai?”. La donna indispettita rispose con fare minaccioso: “Levante tu sai benissimo che io ho da fare, devo lavorare e tanto, e tu questo lo sai benissimo. Ringrazia tuo padre di questa situazione! Vuoi fare il centro estivo? Perfetto! Allora in fretta vieni qui, t’inscrivo e poi parto e ci vediamo questa sera a cena. Ci sono gli avanzi di ieri nel secondo piano del frigo, basta che li scaldi in microonde, tutto chiaro? Giusto!?”. La ragazza visibilmente imbarazzata rispose annuendo. Irsa fu colpita da quest’ultima, l’aspetto della ragazza era sensibilmente differente da quello della donna che presumibilmente era sua madre. Aveva un viso arrotondato, capelli castani, fluenti, occhi verdi, anzi verdissimi, eppure spenti. Era una spanna più bassa della madre, era vestita con dei jeans corti e una maglietta grigia di cotone fiammato, senza alcuna fantasia. Irsa fissava Levante, era fortemente incuriosita da quella ragazza così diversa da lei, ma così simile di stato d’animo. Da tanto, troppo tempo Irsa non provava un genuino interesse verso il conoscere una persona, lei stessa era la prima a meravigliarsi di questa sensazione. Le quattro si sedettero nella sala di attesa vicina al bancone di accettazione, aspettando l’arrivo di uno dei funzionari che aveva colpevolmente lasciato sguarnito il front-office.
La sala bianca era contraddistinta da un sottofondo musicale, le sedute erano comode, le riviste posizionate su di un piccolo tavolino nero al centro della stanza erano di attualità e di particolare interesse. L’aria condizionata rendeva piacevole l’attesa. Vi erano tutte le condizioni per un’attesa quanto più soddisfacente, in un silenzio rigenerante, lontano dal caos che contraddistingue le vie di Roma. Eppure, le due ragazze quasi coetanee, si fissavano come a volersi dire qualcosa. Levante fissava Irsa e Jaesa, era emotivamente attratta dalle due. Nell’ambiente in cui era vissuta gli era stato insegnato che quelle che aveva di fronte erano le “straniere”, gente diversa e strana, una minaccia al nostro modo di vivere. Lei era in parte d’accordo con ciò, era conscia delle enormi differenze che caratterizzano la società europea, generalmente laica e le popolazioni del medio oriente. Eppure, nel ripassare questo vademecum, Levante era tormentata da un pensiero sintetizzabile nella riflessione: “Ma come possono queste due essere una minaccia?”. Le due figure femminili che aveva davanti erano gracili, coperte da un velo dalla testa ai piedi che lasciava scoperto loro solo il viso. Nonostante fossero così coperte e a prima vista impenetrabili, Levante era conscia della loro fragilità. Era fortemente incuriosita da loro, soprattutto da Irsa, aveva una gran voglia di rivolgerle parola, di parlare del più e del meno, scoprire un po’ più su di loro, ma era bloccata dalla possibile reazione che avrebbe potuto avere la madre. Quest’ultima aveva iniziato a guardare di malocchio gli stranieri da quando venne licenziata dalla ditta per cui aveva lavorato all’incirca per 10 anni a causa della
delocalizzazione produttiva operata dal management. Quest’azienda produceva e produce tutt’ora scarpe, nello stabilimento in cui Caterina aveva trovato lavoro si modellavano le suole. Il costo del lavoro molto elevato condusse l’amministratore delegato a spostare le sedi produttive nei paesi medio-orientali, comportando licenziamenti di massa. Caterina, travolta dagli avvenimenti, non incolpò direttamente il management aziendale, se la prese con i cosiddetti stranieri, i quali erano disposti a tutto pur di lavorare. Questa sua convinzione fu poi rafforzata da altre esperienze di vita. Fece svariati colloqui in aziende del territorio e si vide passare avanti molti immigrati, a suo dire disposti ad ogni condizione lavorativa pur di accaparrarsi il lavoro tanto desiderato. Caterina non era mai stata razzista, né aveva dato segni in tal senso, gli avvenimenti della vita la portarono a questo cambio di percezione, incolpando chi come lei non era altro che un ultimo in una società che rende onore solo ai primi.
Il silenzio nella sala fu interrotto dal roboante arrivo della dipendente del front office, una signora sulla cinquantina, distinta, capelli rossi, labbra carnose, occhi grandi e neri, con tipici tratti meridionali. La donna vide le quattro in sala d’attesa ed esclamò: “Mi scuso per l’assenza, eravamo in riunione, sicuramente non il momento migliore per farla”. La signora abbozzò un sorriso che non ebbe successo dalle espressioni delle quattro presenti in sala. Indispettita proseguì: “Per cosa siete qui? Mensa? Carta dell’acqua? Centro estivo? Colonie?”. Caterina che aveva vissuto l’attesa come un’agonia, prese immediatamente parola e disse: “Noi due siamo qui per l’iscrizione al centro estivo” finendo con l’indicare la figlia. Jaesa subito dietro le rispose: “Anche noi siamo qui per lo stesso motivo”. A tal punto, la funzionaria interdetta si ricompose e con fare superbo disse: “E ditemi signore mie, chi è arrivata prima delle due?”. Caterina, sempre la prima a rispondere, esclamò:” Siamo arrivate praticamente insieme, ma io forse per prima”. La funzionaria replicò quasi compiaciuta: “Non vi ho fatto questa domanda per niente. Si dia il caso che sia rimasto solo un posto valido per l’iscrizione al centro estivo. Non possiamo sforare il limite massimo per motivi legali e di assicurazione, di conseguenza non si possono fare eccezioni. Ditemi voi chi è arrivata prima e iscriverò la propria figlia, come vedete il tempismo è tutto nella vita”. Caterina ancora una volta esclamò: “Benissimo allora iscriva mia figlia!”. Jaesa che fino a quel momento aveva tenuto una calma invidiabile, appena fu conscia della possibilità di far perdere l’esperienza del centro estivo alla figlia si armò di coraggio e rispose con fermezza a Caterina: “Guardi che siamo arrivate praticamente insieme, anzi forse io era sulla porta qualche secondo prima di lei solo che invece di tirare spingevo la porta, solo per questo lei è entrata prima. Quindi in caso, quella che si deve iscrivere è mia figlia”. La risposta di Caterina non si fece attendere: “Quindi fammi capire ci volete passare davanti anche qui, per un centro estivo? Sono entrata prima io, l’iscrizione è la mia, la prossima volta legge il cartello sulla porta e tira invece di spingere”. Inutile dire che tra le due nacque un battibecco sotto gli occhi divertiti della funzionaria.
Chi stava odiando ogni singolo secondo di quella conversazione odiosa erano le due ragazze, le quali visibilmente imbarazzate si guardavano a stento negli occhi. In un momento di forte coraggio e disperazione, Levante si rivolse ad Irsa e le disse: “Senti, ce ne andiamo?”. Irsa sorpresa da tutto quello che le stava accadendo intorno, e ancora più incredula alle parole appena sentite, disse: “E dove?”. Nella confusione, Levante le rispose: “Non lo so, ma qualunque altro posto è sicuramente migliore di questo”. Irsa si fermò un attimo a pensare, non voleva lasciare la madre sola, d’altro canto si trattava di poco tempo o forse poco più. Ciò che sentiva forte dentro di sé era il desiderio di uscire da quella stanza e dall’aberrante pensiero di partecipare ad un centro estivo.
Con questi sentimenti che gli rimbalzavano in testa, si rivolse a Levante, annuì con il volto e le disse: “So io dove andare!”.
In tutto questo concitante e febbrile momento, le due donne litigavano e le due ragazze si parlavano. Le due donne litigavano, le due ragazze si conoscevano. Le due donne litigavano, le due ragazze sgattaiolavano via.
Nel percorso per arrivare al luogo che Irsa voleva raggiungere, le due ebbero modo di presentarsi e di continuare la loro conoscenza. Eccitate dalla fuga del momento, il caldo romano non era più percepito come insopportabile. Quando le due donne si accorsero dell’assenza delle ragazze, si allarmarono, le cercarono nelle vicinanze dell’ufficio registrazione. Dati gli esiti negativi delle ricerche, entrambe di comune accordo, incolpandosi a vicenda dell’accaduto, decisero di allertare i soccorsi.
“È qui, siamo arrivate! Vengo qui ogni qual volta che voglio un po’ di calma e un po’ di tempo per riflettere e stare da sola. Lo so che a prima vista non colpisce, però ti assicuro che questo posto ha qualcosa di magico”. Concluse Irsa con aria soddisfatta, scrutando il viso di Levante in cerca di qualche reazione. Effettivamente, il luogo non era esattamente incantevole. Irsa aveva condotto Levante lungo la riva del Tevere, in una zona lasciata particolarmente incolta.
Le piante cresciute in modo spontaneo raggiungevano i cinquanta centimetri di altezza in media, vi era plastica sulla riva, l’acqua era torbida. Giusto qualche albero faceva un po’ di ombra.
L’improvviso alzarsi di un leggero vento indusse il piacevole e ritmico rumore delle fronde degli alberi, un suono contrastato solo dall’incessante scorrere dell’acqua. I raggi di sole ribattuti dal Tevere si infrangevano nell’ambiente circostante e in particolar modo su alcuni scogli posti sugli argini del fiume. I giochi di luce che avvenivano su queste enormi pietre le rendevano particolarmente appetibili per la seduta, vista inoltre l’umidità dell’erba circostante, le due decisero di sedersi lì. A Levante quel posto non piaceva particolarmente, ma non voleva arrecare dispiacere ad Irsa e così finse di gradire il posto. Incuriosita però dalla scelta della sua compagna di fuga le chiese: “Come mai ti piace tanto questo posto?”. Irsa le rispose immediatamente: “Mi ricorda da dove vengo, le mie origini e una persona a me cara”. Levante aveva da subito capito di aver toccato un tasto dolente, ma si era anche accorta di come la corazza impenetrabile di cui si faceva scudo la coetanea a lei di fronte, aveva iniziato a dare segni di cedimento. “Dai racconta, in fondo non abbiamo niente di meglio da fare, no?” esclamò con un tenero sorriso Levante. Irsa, colpita da quanto detto da Levante, fu combattuta da due sentimenti fondamentalmente opposti, da una parte quella era la sua storia, ciò che la rendeva diversa e perché no forse anche un po’ speciale. Dall’altro lato, Irsa aveva bisogno di parlarne, da quando era arrivata in Italia non ne aveva avuto modo se non in occasione del centro di accoglienza in cui in prima battuta era stata accolta. Era passato molto tempo da allora e lei sentiva la necessità di aprirsi, di ricordare chi era. Quest’ultimo filone di sentimento prevalse e con voce leggermente tremante iniziò a raccontare a Levante la sua storia.
“Io e mia madre, quella che hai visto nella sala d’attesa, siamo siriane. Originarie della città di Hama, vivevamo molto bene lì, io e i miei genitori. Hama è una città della Siria centrale, di circa 350 000 abitanti, a poco più di 50 km a nord di Homs e a poco più di 150 km a sud di Aleppo. Conducevamo una vita modesta, ma nella nostra umiltà eravamo felici, la nostra casa era piena di amore. Hama è conosciuta per il massacro avvenuto nel 1982 quando Hafiz al- Assad, il padre dell’attuale presidente della Siria, represse una insurrezione organizzata dai Fratelli Musulmani contro il regime baathista. L’enorme problema del mio paese è che l’attuale regime, perché di questo si parla, è di religione musulmana sciita mentre la maggioranza dei siriani è sunnita. Questo ha da sempre creato disordini e tensioni nel mio paese. Nel 1982 la repressione di tale insurrezione comportò l’uccisione di quasi 40000 persone. La repressione operata dal regime, la sua pesante interferenza e onnipresenza garantiva al paese una certa stabilità apparente. Il figlio succeduto al padre nel governo della Siria, l’attuale presidente Bashar al-Assad ha inizialmente promulgato misure sociali in accordo con lo spirito con cui era nato il partito Baath, permettendo inizialmente anche l’esistenza di una opposizione al governo. Furono tutte misure di facciata per cercare di recuperare il paese fortemente diviso al suo interno. L’opposizione era in realtà praticamente inesistente e i mezzi di comunicazione totalmente controllati, le repressioni delle ribellioni erano costanti e brutalmente condotte. Mio padre e mia madre sunniti soffrivano di questa situazione, e nonostante conducessimo una vita normale per quelle zone, la loro volontà era quella di partire, emigrare. Mi chiamarono Irsa, che in arabo significa arcobaleno perché per loro rappresentavo l’unico sprazzo di colore in una città piena di un bianco apparente, ero un ponte per loro di speranza e fiducia verso il futuro. La situazione degenerò quando scoppiò anche in Siria ciò che voi chiamate la primavera araba. Non so dirti quali tra i pretesti politici e religiosi prevalse, ma questi scatenarono una guerra civile in Siria dagli effetti atroci e tutt’ora persistenti. La Siria è ad oggi una bomba ad orologeria, divisa in tante fazioni, appoggiate da potenze mondiali, le quali hanno solo sporche motivazioni economiche. Il mio paese non ha una grande riserva di petrolio, ma è logisticamente importante perché permette di abbassare i costi di trasporto del greggio e di commercializzare
direttamente con le grandi compagnie energetiche. Motivazioni politiche, religiose ed economiche, in questo modo il mio paese è caduto in rovina. I miei occhi hanno visto l’imponderabile, ho visto morire mio zio per mano del governo di Assad così come mia nonna, la repressione non risparmia nessuno. Ho visto persone morire per le armi chimiche, straziate dai lamenti. Ho visto bombardamenti, case e scuole cadere giù come castelli di carta. Non so come io e la mia famiglia siamo riusciti a sopravvivere tra la fame e la polvere. Mio padre teneva segretamente rapporti con i Fratelli Musulmani stanziati in Daraya. Sapeva che da quella città partivano i pick-up che permettevano di lasciare la Siria. Con il tempo, fornendo a suo rischio informazioni ai ribelli sul governo di Assad e attraverso azioni di sabotaggio, riuscì a conquistare la fiducia della fazione ribelle. Mio padre si fece promettere di farci portare lontano dalla Siria in cambio del proseguimento della sua attività di spionaggio e sabotaggio e l’incondizionata adesione ai Fratelli Musulmani. Mio padre aderì a queste condizioni per il nostro bene, sapeva che così facendo avrebbe condannato sé stesso a morte certa, ma era consapevole che era l’unico modo che aveva per salvare me e mia madre. Finimmo così in Daraya e dopo poco tempo partimmo con un pick-up alla volta della Giordania.
Mio padre ci salutò dandoci un bacio e facendoci promettere di raggiungere l’Italia con ogni mezzo possibile. Jawweda, così si chiama mio padre, in Arabo significa generoso e come puoi capire, rispecchia a pieno il suo nome. Non so se è ancora vivo, ogni giorno penso a lui, non so neanche come potrebbe raggiungerci e come contattarlo.
Io e mia madre una volta arrivati in Giordania giurammo a noi stesse di raggiungere in ogni modo l’Italia, l’avevamo promesso all’uomo che ci aveva dato una possibilità di salvezza e non potevamo deluderlo. Così iniziò il nostro lungo pellegrinare per tappe intermedie, fermandosi rispettivamente in Egitto e Sudan prima di arrivare al porto libico di Zuwara. In ogni paese che abbiamo attraversato è stato necessario fermarsi per qualche mese in modo da accaparrare i soldi necessari per continuare il viaggio. Una volta arrivati a Zuwara, trovare un trafficante di migranti non è stato difficile. Il pesce libico è così costoso a causa della mancanza di pescherecci che vadano in mare a pesca, la maggior parte sono utilizzati dai trafficanti di persone. La vera difficoltà fu trovare i soldi necessari per permetterci questo viaggio. Il trafficante individuato tramite un intermediario, ci aveva fatto sapere di volere 740 euro a testa per il viaggio, un’enormità. Impiegammo diverso tempo a recuperare quella cifra. Una volta avuti tutti i soldi, ricontattammo l’intermediario il quale ci diede appuntamento due giorni dopo, nel cuore della notte, in un punto preciso della costa libica. In quella notte, che non scorderò mai, mi ricordo che vidi questo gommone, blu e bianco, aveva uno spessore quasi ridicolo, affiancare la parola stabilità a quel mezzo era una pura assurdità. Eppure, tanti altri come me, vedevano la salvezza in quella ondulante plastica galleggiante. Il trafficante allungò una mazzetta alla guardia costiera, la quale poi velocemente sgattaiolò via. Il trafficante ci fece sedere, intimandoci di non alzarci più per qualsiasi motivo, consegnò ad uno di noi un telefono satellitare, un GPS e qualche salvagente, poi si diresse al comando del gommone e lo fece partire.
Eravamo una cinquantina, di ogni nazionalità, stretti, scomodi e soprattutto impauriti, molti di noi non sapevano neanche nuotare. Per nostra fortuna il mare era calmo e per il viaggio non ci furono grossi problemi.
Il trafficante spense il motore del gommone appena vide in lontananza una petroliera ferma a largo di un’isola, che poi ho scoperto essere Lampedusa. Il trafficante ha cercato di attrarre la sua attenzione in ogni modo, sbracciandosi e urlando, ma ogni sforzo sembrava inutile. Già, sembrava, perché in breve tempo una nave costiera italiana venne e ci salvò tutti. Ci portarono in un centro di accoglienza per poi smistarci nelle varie città italiane, a noi toccò Roma e siamo state fortunate, viviamo in una casa popolare e il comune ci dà un sussidio giornaliero. Tutto molto bello se non fosse per il dolore che portiamo dentro. L’Italia è meravigliosa e ci ha dato tutto, ma il nostro cuore è rimasto là con nostro padre. Questa è in breve la mia storia”. Levante era semplicemente senza parole, aveva cercato di incamerare tutto quello che le era appena stato raccontato, ma ciò che più l’aveva colpita era la storia del padre, in questo lei si sentiva molto vicina ad Irsa. “Io non potevo immaginare tutto questo dolore che ti porti dentro Irsa, quello che hai passato è ingiusto e io sono veramente felice che tu ora sia in Italia al sicuro. Tuo padre sarebbe orgoglioso di te. Anch’io nella mia vita ho sofferto, ma a differenza tua io a causa di mio padre. Si chiamava Giacomo ed era un alcolizzato, ma ci voleva bene. Avevamo provato io e mia madre ad aiutarlo con questo problema, sembrava pure che avesse smesso, ma fu solo una cosa temporanea. A causa di questo maledetto vizio perse il lavoro, all’inizio non ci disse nulla. Disperato, si fiondò ancora di più nell’alcol e per pagare bollette e mutuo di casa, si rivolse a chi non doveva. Non avendo modo di restituire i soldi, veniva costantemente minacciato. Ci disse dei guai in cui era finito quando sentiva la fine ormai vicina. Non riuscimmo ad aiutarlo, fu ritrovato morto non molto distante da qui. Le indagini sono ancora in corso, ma non ho fiducia. Ogni giorno mi chiedo se avessi potuto fare qualcosa in più per aiutarlo, era problematico, era un casino, ma era mio padre ed io l’amavo e sono sicura che anche lui, a modo suo, amava me.
Mia madre lo ha odiato perché ci ha lasciate, anche lei nonostante tutto lo amava profondamente. Improvvisamente si è ritrovata senza lavoro e ha visto tante porte chiudersi, è la vita che l’ha resa così arida. Ora fa la rappresentante per una ditta di cosmetici, bussa di casa in casa, è un lavoro che odia, ma è l’unico che è riuscita a trovare per il momento”. Levante con lo sguardo fisso in cielo si prese una pausa e poi continuò “Sai io non credo che ci siamo incontrate per caso”. Irsa rispose: “Penso la stessa cosa”. Levante proseguì “Dobbiamo continuare a vederci, questo sarà il nostro punto di ritrovo che ne dici?”. “A me va benissimo” replicò Irsa. Le due poi si abbracciarono e decisero di tornare verso casa, era passata ormai più di un’ora, entrambe pensavano di aver fatto penare il giusto le due madri che tanto le avevano fatte vergognare.
Sono passati ormai più di 20 anni, Irsa e Levante sono ancora insieme, unite da un dolore comune e spinte da un volersi bene che va al di là di ogni ragionevole previsione. Le due ora camminano affianco, in un complice sorriso, tengono per mano i loro bambini chiamati con i nomi dei loro nonni materni. I due piccoli sono già grandi amici e non vedono l’ora di iscriversi al centro estivo per giocare ancora di più insieme. E così, a vent’anni di distanza, Irsa e Levante sono di nuovo davanti al bancone di accettazione di quell’insolito ufficio registri, ma questa volta le madri parlano e i bambini giocano, le madri ridono e i bambini giocano, le madri piangono di gioia e i bambini si chiedono il perché.
Il dolore, come l’amore, non ha spazi in cui si può limitare. Chi traccia confini troppo spesso dimentica che l’unica linea presente in natura, l’arcobaleno, da sempre unisce e non divide, rendendo ponente e levante un’unica cosa sola.
Scrivi un commento