Racconto di Mike Papa

(Quinta pubblicazione)

 

 

Finita la sua opera, il ragionier Franchini fa tre passi indietro per ammirarla.

Perfetta!

Diventa ogni anno più bravo e questo solo grazie all’assoluta dedizione che mette in quello che ormai è divenuto un appuntamento fisso di ogni Natale.

Con un sorriso ricorda i primi tentativi maldestri: che obbrobri era riuscito a tirar fuori, perdinci!

Ma, come diceva la mamma, possiamo tutti migliorare, se ci impegniamo e facciamo affidamento su Nostro Signore Gesù Cristo.

Sempre indietreggiando, riempendosi gli occhi di ciò che vede, esce dalla stanza, si gira con una gioiosa piroetta e sale le scale per andare in bagno a darsi una sciacquata. Stavolta gli viene in mente suo padre: “Per fare un buon lavoro bisogna sporcarsi le mani”, era solito dire.

Ecco, se era cresciuto con i sani principi che si vantava di avere il merito era tutto dei suoi, che Dio li abbia in Gloria. Non importa se per sottolineare i loro insegnamenti ricorrevano a metodi non proprio evangelici.

Non importa.

Non più, almeno.

 

Neanche quattro ore prima un giovane di bell’aspetto e ben vestito aveva suonato il campanello del suo appartamento.

Erano sette-otto mesi che Franchini gli faceva la corte o, con l’espressione che preferiva usare perché evitava qualsiasi fraintendimento, che se lo lavorava.

Le basi.

Pianificare tutto per tempo, con una visione a lungo termine.

Aveva imparato che un giorno ci si maschera per Carnevale e dopo un battito di ciglia, puff, ecco arrivato Natale.

Quindi era solito aprire la stagione del reclutamento, altra espressione che gli andava a genio, massimo a fine marzo.

Quell’anno, a ottobre aveva una rosa di cinque candidati. Niente male, voleva dire prendersela con calma, vagliare bene le opportunità, vedere da quali esche erano più attratti i suoi pesciolini.

Alla fine il vincitore era risultato il ragazzo biondo che aveva invitato quella sera.

Si erano accomodati in salotto a bere un fantastico cocktail preparato con maestria dal padrone di casa e parlato, scherzato e riso come vecchi amici. O come amanti, cosa che non erano ma che il giovane credeva sarebbero diventati, se non aveva capito male le intenzioni del suo ospite.

Finché la TTX non aveva fatto effetto: il giovane si era bloccato a occhi sbarrati, cercando di parlare ma non riuscendoci. Era rimasto lì, paralizzato ma cosciente.

E già, il biondo aveva proprio capito male.

 

Mentre si veste per la serata, Franchini continua a ripercorrere le ultime ore.

Anche in quello trova piacere.

Diciamoci la verità: ogni volta era tutto, tutto, tutto una goduria, dall’entrata dell’ospite al brindisi finale.

Anzi, già da quando aveva tirato giù gli addobbi dalla soffitta, il giorno prima, aveva cominciato a sentirsi euforico e… appagato, sì, perché no?

Certo, gli scatoloni erano pesantissimi e aveva sudato, anche se era dicembre, ma cosa ribadiva spesso suo padre riguardo il sudore? Che era il giusto… No, che era il prezzo… Sudare, diceva, era la ricompensa… No, neanche questo.

Oh, be’, vaffanculo il paparino.

Indossato lo smoking, il ragioniere si avvia verso il seminterrato dove passerà la sera della Vigilia, con una breve sosta in cucina per prendere la bottiglia di champagne e la flûte col pacchiano bordo dorato, eredità della mamma. Ormai la striscia d’oro è quasi del tutto un ricordo, ma le tradizioni vanno rispettate, altrimenti che Natale è?

Arrivato nello scantinato si accomoda sulla poltrona ammuffita e piena di bozzi, a meno di un metro dalla sua creazione, e si bea di essa.

Il corpo del ragazzo è sistemato ad arte, nudo e ricoperto di addobbi, su quella che Franchini continua a chiamare “croce”, non riuscendo a trovare un altro termine. A differenza di quella del Nazareno i bracci orizzontali non sono perpendicolari al ceppo verticale, ma inclinati di quarantacinque gradi verso il basso, in modo da ricreare la forma di un abete.

Le palline sono di legno, pitturate a mano e conficcate nelle carni con lunghi chiodi.

Franchini le trova una delizia e averle realizzate tutte da solo lo riempie di orgoglio e gli fa scattare altre memorie d’infanzia: sua zia gli ha insegnato l’elegante tecnica della decorazione e il suo secondo marito l’uso del tornio, nella piccola officina puzzolente di grasso rancido.

Lo stesso grasso con cui si spalmava l’uccello prima di…

Basta!

Quei ricordi rischiano di intristirlo, ed è l’ultima cosa che vuole.

Svuota la mente da qualsiasi pensiero infelice e continua a rimirare l’opera sulla “croce”.

I festoni sono di filo spinato colorato. Quei maledetti rappresentano sempre la parte più difficile: non sono per niente malleabili e per farli aderire bene al corpo, per ficcarli a fondo, deve lavorare con guanti pesanti, aiutandosi con una pinza. Comunque la fatica è sempre ben ripagata: a ogni puntura il sangue è svelto a zampillare.

Caldo e rosso.

Il colore del Natale.

Lo spezzone celeste ha perso un po’ di smalto, come la flûte ha perso l’oro. Prima di riporli dovrà fare qualche opera di manutenzione sui suoi addobbi.

Il cavo delle luci, antiquate lampadine a filamento da 220 volt, è scoperto in vari punti, ma questo è voluto di proposito. Quando ha inserito la spina nella presa, il giovane è diventato tutto un agitarsi sconnesso, sembrava Ted Bundy sulla sedia elettrica. A Franchini è venuto da ridere sentendo le campanelline spillate alla pelle flaccida del pene e dei testicoli tintinnare al ritmo delle convulsioni.

Ma quello che reputa senz’altro il suo capolavoro è la stella cometa: quando l’ha conficcata sulla testa con i capelli impomatati per la serata, il ragazzo ha avuto un sussulto, l’ultimo spasmo di vita prima che il lungo chiodo gli raggiungesse il cervello.

In quel momento erano occhi negli occhi e vedere quelli del suo giovane ospite spegnersi dopo tutte le torture subite è stato così… così…

Rivivendo l’indescrivibile sensazione provata, Franchini agita come un ossesso la bottiglia di champagne e libera il tappo dalla gabbietta: il sughero schizza via, rimbalza sul soffitto, cade nella vecchia vasca da bagno in cui si raccoglie il sangue del martoriato e rimane lì, a galleggiare su tutto quel rosso.

Un lampo attraversa la mente del ragioniere, una similitudine che non capisce, come se provenisse da un cervello non suo, un cervello alieno: Sono io, quel sughero.

Ma non sta lì a pensarci troppo, non quella sera: la scaccia riempendo la flûte e alzandolo verso il suo abete personale: «Auguri, caro Alberto, buon Natale anche a te.»

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