Racconto di Elena Soprano

(Terza pubblicazione)

 

“Chiama la biblioteca”, oppure “Prenota Rigoletto per febbraio”, al limite “Sposta dentista”. Quando guidava era concentrata su questioni di questo tipo. Alla spia dell’olio, dell’acqua, al livello della benzina non ci pensava mai. Si accorse che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto dall’odore di forno surriscaldato. “Viene da fuori?” si domandò. Fu così rapido il passaggio dalla sensazione olfattiva a quella visiva che non fece in tempo a rispondersi. Dal cofano usciva del fumo, bianco, sempre più denso, che si allargava come un fungo atomico sopra la macchina. Accostò e si fermò. Era su un tornante di montagna, non proprio il posto migliore per ritrovarsi a piedi. Il primo pensiero fu di calma e sensata accettazione. Abbassò il finestrino e rimase lì, a motore spento, aspettando che il fumo si diradasse. Passati dieci minuti, versò nel radiatore quello che rimaneva della sua la tisana alla malva del thermos. Sapeva che l’auto non si sarebbe ripresa.

L’aveva comprata usata diciassette anni prima. Il colore era blu acceso, come il mare colorato dai bambini; il suono del motore, un sussurro gentile, l’aveva accompagnata dappertutto. La considerava la sua prima auto. La precedente l’aveva tenuta solo un paio di anni, non c’era stato feeling. Billy poi, il suo cane, non l’aveva mai sopportata. Chiuso nel bagagliaio incominciava ad abbaiare all’accensione e smetteva non appena si fermavano, con brevi pause solo per infilare il muso nel divisorio e mordere le cinture dei sedili posteriori. Invece, fin dal primo giorno con Lablù, così l’aveva chiamata Emy, con tanto di accento, aveva scodinzolato e, aperto il portellone, con un salto si era accoccolato nel bagagliaio come se non avesse desiderato altro da sempre.

Lablù non l’aveva mai lasciata a piedi per via della batteria: aveva sempre dato avvisaglie per tempo cominciando a mettersi in moto con qualche colpo di tosse. Sette anni prima era stato necessario un intervento invasivo. “O si fa, o non garantisco che arrivi a Natale” aveva sentenziato il meccanico. Che poi, vatti a fidare dei meccanici. Per scrupolo l’aveva portata da un altro: “Ma le conviene aggiustarla? Mi entra un’auto usata venerdì, con duemila euro la porta via, un’occasione.”

“Forse non ha capito bene chi siamo” aveva pensato Emy. E gli aveva lasciato il numero di telefono, sbagliato: “Sì, mi chiami, mi faccia sapere.” E con Billy sui sedili posteriori erano andati fino alla Piana, dove c’era una vista panoramica su tutta la vallata. Erano stati in silenzio, lei, il cane e Lablù. Perché quando si muovevano o viaggiavano si sentivano sempre in tre.

Per il trapianto ci vollero tre settimane di attesa. Non si trovava la testata del motore giusta. Il meccanico fu preciso, rapido come il più quotato dei chirurghi. Lablù fu portata in officina alle 10 del mattino e alle 6 del pomeriggio si ritrovò spedita su una salita come un’auto appena immatricolata.

Nella loro storia ci fu solo un incidente serio. Emy stava ascoltando un audio sulle Cinque ferite di Lise Bourbeau, domandandosi quale fosse la propria, quando fu distratta da un colpo. Vide qualcosa sfrecciare nello specchietto retrovisore e solo dopo diversi metri si rese conto di aver investito un ragazzo in motorino, non gli aveva dato la precedenza svoltando.

“Poteva ammazzarlo” le ringhiò il vigile. Lablù non l’avrebbe mai permesso. L’angolazione e la velocità dell’impatto erano stati tali che il ragazzo era caduto sull’aiuola, evitando l’asfalto. Come la volta del capriolo. Un micro secondo di differenza e il disastro sarebbe stato irreversibile, forse per uno dei due mortali. Con un’elegante e abilissima mossa da arti marziali l’animale si ritrovò catapultato sopra il tettuccio per scivolare sull’altro lato della strada, indenne. Sembrava che Lablù avesse un’intelligenza propria. Emy aveva spesso la sensazione non tanto di guidare un’auto, piuttosto di essere guidata da lei.

Questa volta il guaio era terminale. La frase non fu posta in termini di domanda: “Non le conviene aggiustarla.”

Il meccanico fece un intervento di urgenza, un by pass nel circuito dell’acqua. “E la batteria la cambiamo? E’ andata” disse.

Non rispose subito. Aspettò di essere da sola, a casa, lontano dalla macchina. Allora gli telefonò e disse che no, la batteria non l’avrebbe cambiata.

Guardò in rete le offerte dei concessionari. Come vide la prima auto, una rossa a km zero, seppe subito che era lei: certi amori sono prepotenti e non ti danno tempo di scegliere, entrano nella tua vita senza bussare. Per non ammettere questa sua debolezza continuò la ricerca, guardò una cinquantina di offerte, chiamò altri tre venditori. Poi con Lablù, messa in moto coi cavi collegati all’auto del cognato, andò dal primo, dove c’era l’auto rossa, che battezzò subito Larossa. Non le disse dove la stava portando. Fece finta di essere in uno di quei suoi giorni pensierosi e di poche parole. Firmò il finanziamento per le rate. Il giorno dopo Lablù si avviò da sola, senza i cavetti. Il finestrino elettronico che per tutto l’inverno era stato bloccato, riprese a funzionare.

Emy cominciò a pulirla un po’ per giorno, una volta togliendo carte, scontrini e giornali, una volta qualche vecchio straccio dal bagagliaio, non voleva farle capire che doveva spogliarsi di tutto per esser portata dal concessionario e poi dal demolitore. Lasciò tutti gli accessori, il giubbotto di emergenza, il triangolo, le pedane fino all’ultimo momento. A una settimana dal ritiro, la donna iniziò a dormire in macchina, era cominciata l’estate, non faceva freddo, le bastò portarsi dietro una coperta e un cuscino. Abitava in una casa indipendente, l’unico che poteva vederla erano il cognato, vedovo della sorella. Ma non se ne fece un problema. Tutte le volte che aveva portato Billy in montagna, e poi, quando Billy non c’era più, sua figlia legata al seggiolino insieme all’orsacchiotto. Le corse notturne in città per vedere il Lui di turno, il traghetto per la Grecia e Lablù così piccola come nella pancia di una balena, lei stessa un Pinocchio in cerca della sua anima bambina. La sua auto era tutto questo e molto di più. Larossa non aveva memoria, storia, non aveva voce. Forse non l’avrebbe mai avuta. Ma era splendida.

Dopo una settimana Emy andò dal rivenditore e mise l’auto nel parcheggio di fronte: Larossa era già lì, scintillante, sontuosa, pronta.

Raccolse le ultime cose, la chiuse. Attraversò la strada per andare dal concessionario senza voltarsi, poi un passante la chiamò: “Signora, ma non ha messo il freno a mano?” Sì che l’aveva messo, eppure Lablù era scivolata in avanti fermandosi contro Larossa. Era riuscita a segnarle il paraurti. Sbrigò le ultime formalità senza alcuna parola – lei, considerata una “tritacervelli”, il peggior cliente per qualsiasi commerciante- , aveva fretta di tornare a casa. Si fece accompagnare al parcheggio, non voleva essere sola. Si incapsulò nel sedile, partì con una manovra veloce e sicura che aveva visto solo nei telefilm. Attraversò un paio di incroci allo scattare del rosso e guidò a scheggia per tutta la tangenziale senza accendere la radio. Aveva in testa il clacson di Lablù. Non aveva visto se era stato l’uomo, mettendola in moto, a provarlo, a toccarlo per sbaglio, mentre lei si allontanava sull’auto nuova.  Le risuonò come un richiamo, un estremo saluto, un grido di aiuto. Si disse che se lo era immaginato e che aveva letto troppi romanzi di Stephen King. Accelerò lasciando all’asfalto ogni dubbio.

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