Racconto di Francesca Coppola

(Seconda pubblicazione)

 

 

Eccoli, di nuovo. Il rumore terribile dello schianto e il grido senza fine del clackson bloccato. Il fischio sordo dell’aria che fugge dagli pneumatici. L’odore del fumo. Il corpo accasciato sullo sterzo. Io che non riesco a muovermi. Una voce che forse non è la mia gira a vuoto dentro di me, chiamandolo ininterrottamente. Lui non si volta. Non sente. Resta immobile.

Anche questa notte mi svegliano le mie urla. Il pianto violento, feroce, nel quale vorrei affogare una volta per tutte, e che pure non arriva. Mi trascino in cucina a litigare con il filtro della tisana. La farmacista, dall’alto dei suoi grandi occhiali, mi ha garantito risultati prodigiosi con questo intruglio.

Non può sapere che  non ci  saranno mai più miracoli, per me. I miracoli si sono fermati oltre il vicolo di casa mia. La tenda color crema copre il grande buio all’esterno, ma non quello che sento dentro.  Questo appartamento materializza tutta la mia claustrofobia. Il tappeto conserva le tracce di un caffè rovesciato  prima di partire, la mia rabbia  esplosa per la sua sbadataggine, la promessa che al nostro ritorno avrebbe smacchiato personalmente il tutto – se solo fossi stata paziente -. E poi quel suo sorriso a metà, quante volte mi ha ucciso!

Samuele non amava i tatuaggi, ma gli piaceva quello mio sulla caviglia, una fenice che tenta il volo. Quanto avevo amato il suo modo di raccontare l’aneddoto, di scherzare sulle parole non proprio lusinghiere del disegnatore che  aveva definito “un pollo” -sì proprio così-  l’immagine che poi sarebbe rimasta per sempre su una parte del mio corpo. Disse, in una di quelle occasioni, che di me aveva subito amato la determinazione, il completo disinteresse dell’opinione altrui, il fregarmene altamente e il non aver dubitato mai.  Mi confessò di non andare matto per i tatuaggi ma  che adorava il mio e  tutti quelli  che in futuro avrei potuto ancora fare.   Lo vedeva come un testamento,  un manifesto  per affermare al mondo che -io me ne fotto-. In quel momento, per la prima volta, lui aveva capito di volere essere una mia decisione presa. Un mai voler tornare indietro ma andare avanti con forza, con tenerezza, con costanza. Essere parte di un mio progetto, un pensiero, una speranza, una meta.

Le tazze del caffè sono rimaste abbandonate nel lavandino. Le ho prese e riprese in mano, le ho osservate, perfino odorate, non riuscendo mai ad indovinare quale fosse la sua. Le ho ripercorse bordo a bordo con le labbra per sentire ancora il suo sapore ma tutto mi appare oscuro. Uno scherzo, un incubo, un fato crudele. Sono di nuovo sola. Non ho genitori. E gli amici, quali amici? Occhi compassionevoli, forse. Occhi che non ti guardano in viso. Occhi che comunque non vuoi vedere se fra quelli non ci sono anche i suoi. Ogni tanto parole sue mi vengono alla mente, e fra tante, non so bene perché,  una frase ritorna più di frequente:  “Dare alle tempeste nomi umani, questo sì che è inquietante!”.

Lui invece era la catastrofe a cui non sapevo dare un nome.

Dovrei seguire un percorso di ricostruzione, dice Viola, proprio io che mi sento già psicologa di me stessa. Niente che non venga minuziosamente analizzato, niente mi passa  a fianco ma solo attraverso. Dice che non è normale che non abbia più pianto da allora. Sono trascorsi mesi  e ancora non esco di casa. Lei non sa che ho paura di farlo, ho paura di incontrare le persone che ci conoscevano e vedere nei loro occhi la mia sofferenza, ho timore di attirare l’attenzione sulla mia situazione così cambiata e  far notare la sua assenza. Che se esco di casa diventa reale.

Si dice che bisogna toccare il fondo per risalire ma quanto sia profondo non si sa. E poi come ti accorgi che non stai più sprofondando? E qual è la differenza tra soffocare e restare nella melma in attesa di rinascere?

In fondo ignoravo molte cose ma sapevo che ero stanca e che l’amavo.

 

https://www.ibs.it/non-togliermi-vestito-libro-francesca-coppola/e/9788893820608