Racconto di Daniele Pratesi

(Prima pubblicazione)

 

Comprai un vestito elegante e lo stretto necessario. Novantacinque euro: tanto mi era costato l’aver dimenticato la valigia in ufficio. Arrivato a Milano, decisi di fermarmi al primo centro commerciale sulla strada verso l’albergo. Dentro l’outlet mi venne in mente un vecchio consiglio del mio ex direttore.

«Fatti notare: metti qualcosa di sgargiante, non so… Un paio di calzini rossi, oppure un papillon. Metti un papillon, ragazzo». Fu questo il suo suggerimento, anni prima, riferendosi agli incontri business. Così comprai anche un farfallino rosso. Uscii di lì che erano le nove e mezza di sera e raggiunsi, finalmente, l’Hotel Cavour.

Prima di salire in stanza, dopo aver fatto il check-in, ordinai un panino. Ero affamato. Mi trovavo in quella città perché l’indomani avrei avuto, forse, l’appuntamento più importante della mia vita. Facevo l’intermediario presso uno studio di commercialisti: l’incontro era con l’amministratore delegato di un’importante azienda polacca del settore informatico. Riuscire a chiudere quella negoziazione per i miei clienti avrebbe significato un bel gruzzoletto e per me una lauta commissione. Entrato in camera, corsi a farmi una doccia: ero stanco morto, avevo viaggiato per più di cinque ore. Dopo pochi minuti, sentii bussare. Masticando il sandwich, scuotevo il capo fissando la tv spenta. La testa era un turbinio di pensieri: senza il mio vestito firmato come potevo far breccia sul cliente? E poi c’era la questione della lingua, il polacco. Il taccuino con i miei appunti era rimasto in valigia, è lì che avevo segnato tutto, anche le varie espressioni e i modi di dire. Prima di andare a dormire venni assalito da un senso di nausea. Decisi di mettermi due dita in gola e vomitare. Di notte, mi preparai una tisana e, con lo smartphone, cercai di ripassare un po’ il polacco. In passato avevo avuto una storia con una ragazza di Varsavia, qualcosa avevo imparato. Niente a che vedere con il saper intrattenere una conversazione di lavoro, certo. Così, provai a immergermi di nuovo in quella lingua. Stringendo la mano a quell’uomo, avrei dovuto almeno pronunciare le parole dzieńdobry, buongiorno. Poi, avremmo continuato in inglese. Qualche parola di polacco era, per me, un po’ come il papillon per il mio ex direttore. Mi sarei fatto notare.

Al risveglio, ero uno straccio. Feci colazione in camera. Di fronte allo specchio, indossai il mio nuovo abito e il farfallino in tinta con i calzini: ero abbastanza ridicolo per un appuntamento così importante. Con i miei due clienti ci incontrammo al caffè davanti all’ufficio dove ci avrebbe aspettato Penderecki, il CEO dell’azienda. Uno dei due mi squadrò da capo a piedi.

Poi, disse: «Non sei troppo…», fece una pausa. «Eccentrico?»

«Fidatevi di me», dissi rivolgendomi a tutti e due.

L’altro scelse di non proferire verbo. Ordinammo tre caffè.

«Per me lungo», dissi al barista.

Pochi minuti dopo entrammo in riunione, nello Studio Barzagli Commercialisti Associati: Penderecki e il suo staff erano già lì.

«Dzieńdobry», dissi stringendogli la mano.

I miei clienti continuarono a guardarmi dubbiosi. Il polacco mi osservò attento. Era in gioco la compravendita della società informatica fondata dai miei clienti; Penderecki era interessato ad annetterla alla propria, ma puntava a un vero e proprio affare. Incentrò la negoziazione sul fatto che aveva tra le mani altre società con prodotti simili, ma che erano più a buon mercato. Gli dissi che chi rappresentavo aveva compratori pronti a fare follie. Ovviamente non era vero. Non avevamo nessuno, se non il polacco di Cracovia. Durante il meeting facemmo varie pause dove, parlando tra di noi, decidevamo l’imminente strategia da adottare.

Inizialmente, riuscii a tenere le redini della discussione. Il polacco spesso annuiva alle mie osservazioni; avvertivo sensazioni positive. In quel tavolo, mi sentivo come dentro uno stallo alla messicana: avevamo tutti le pistole puntate contro. Sembrava Il buono, il brutto e il cattivo, io ero il buono, o forse il brutto per come mi ero conciato, e il polacco il cattivo.

Dopo un po’, non lo avevo ancora fatto fino a quel momento, buttai là il prezzo: dieci milioni di euro.

«Niedorzeczny!», disse Penderecki ridacchiando e fissando il mio farfallino.

«Cena nie do negocjacji!», ribattei fermamente toccandomi il papillon come per darmi un tono, senza nemmeno sapere cosa mi avesse appena detto.

D’un tratto, sentii scivolare via il controllo della situazione. Mi resi conto di aver detto una cosa per un’altra: prezzo non trattabile. Era l’esatto contrario di ciò che volevo dire. Gli animi si scaldarono, Penderecki cambiò umore e mi dette dell’arrogante.

«Cosa?!», mi scappò detto in italiano.

Il polacco reagì come un matto e iniziò a sbraitare. I miei clienti rimasero di stucco: non volevano perdere l’unico potenziale acquirente. Erano due geni che avevano creato l’azienda con pochi spiccioli, non pretendevano nulla, in fondo. Penderecki, batté il pugno sul tavolo e si alzò. Aveva premuto il grilletto per primo: BAM!

Disse: «Do widzenia!»

Uscii da quello studio frastornato, come se davvero mi avessero colpito. E in silenzio. I miei clienti mi tirarono per un braccio.

«Mi dispiace», dissi sfilandomi il papillon.

Tornando a Roma, in macchina, chiamai mia moglie. Le chiesi scusa: dovevo darci un taglio con la prepotenza, finalmente lo capii. Poi, prima di arrivare a casa, passai dall’ufficio per riprendere la valigia. Dentro vidi i miei vestiti e il bloc-notes. C’era anche il dizionario di polacco: cercai le parole niedorzeczny e do widzenia. Lessi: «assurdo» e «arrivederci». Assalito da un dubbio, andai alla lettera C per cercare la parola cosa: non trovai nulla. Per scrupolo, controllai la lettera K e vidi koza, «capra». Corsi in bagno a vomitare.

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