Racconto di Giovanni Filomena

(Seconda pubblicazione – 13 marzo 2019)

 

Camminare senza una meta, perdermi con lo sguardo su strade vuote e lunghe o trafficate e assolate, sedermi sulle panchine e godere di quel soffio di vento che spazza via l’aria calda e anima le fronde degli alberi, regalare sorrisi a chiunque e a nessuno, ritrovarmi a giocare con i bambini mentre i loro genitori osservano  straniti quel l’adulto che io ero – ma dai modi così simili ai loro figli – tutto quanto era ciò che più amavo fare, e nonostante qualcuno mi chiamasse picchiatello, come a dire che mi mancasse qualcosa, io di quella cosa non ho mai sentito la mancanza.

Per me vivere è sempre stata una cosa semplice e solare, mentre chi mi stava vicino spesso non arrivava a capire né accettare di vedermi così. Ugualmente, dentro, non mi sentivo diverso, era la loro protezione che mi rendeva tale.

Io però non volevo più la loro protezione, mi soffocava, mi impediva di mostrare ciò che di più bello avessi da dare: il sorriso, l’innocenza, la leggerezza di vivere, di rendere tutto un gioco.

Già, un gioco.

Quando un giorno lo sceriffo della contea di Atlanta, nel suo ufficio mi raccontò il gioco finito male di una bambina sorpresa nel buio della propria casa, rapita e violentata, e che a renderla in quelle condizioni ero stato proprio io, io non ricordavo affatto di quello strano gioco con quella bambina, e a dire il vero nemmeno i miei familiari ne erano a conoscenza. E loro sapevano sempre tutto di me.

Ma lo sceriffo non volle darsi per vinto, così mi disse che da quel momento avremmo giocato a un nuovo gioco: verità o penitenza. Era il mio gioco preferito. Ma a differenza delle altre volte che giocavo all’aperto, stavolta rimanevo chiuso in una cella condivisa con un’altra persona. E anche lui mi guardava con quell’aria di chi non capiva che facessi, che cosa dal nulla avessi da ridere, perché alla mia età giocassi ancora con le macchinine. A volte perdeva la pazienza e arrivavano spintoni, insulti e talvolta mi strappava la macchinina dalle mani per scagliarla contro il muro. Ma a parte qualche scalfittura, la mia bella macchinina rossa restava in piedi. E in fondo di questo anche lui si rallegrava. Perchè anche se non lo ammetteva e nemmeno lo facesse vedere, io e lui stavamo diventando amici. Un’amicizia durata anni, sino a quando un giorno una guardia mi prese con sé e mi trasferì in una cella isolata, dove a turno venivano a trovarmi familiari, prete e quelli della mensa che esaudivano ogni mio desiderio. Il mio piatto preferito? La torta al cioccolato. Quel giorno ne mangiai tre fette, ma a differenza delle altre volte i miei non dissero nulla, anzi, mi sorrisero commossi. E mi fecero pure giocare con la macchinina. E ciò mi sorprese, perchè mio padre non amava che si giocasse durante i pasti: spesso mi strappava la macchinina dalle mani e la scagliava con forza a terra oppure la nascondeva da qualche parte nella casa. Ma poi ci pensava mamma, lontano dagli occhi di papà, a restituirmela. A volte tra un piatto e l’altro. Tra me e mia madre bastava poco per capirsi. E anche quel giorno capitò: una volta arrivate le guardie ad accompagnarmi nella stanza da gioco, lei mi strinse forte la mano che teneva la macchinina e aggiunse:

“Sii forte figlio mio…non è che un gioco…vedrai, sarai invisibile e nessuno riuscirà a

scovarti…sarai imprendibile… e soprattutto sarai sempre vincitore…perché uno come te, non perde mai!”

“Si, lo so mamma! Non preoccuparti! Io non ho paura di questo gioco! Anzi, non vedo l’ora di iniziare!”.

Poi giunsi finalmente nella stanza da gioco. Ad attendermi un uomo vestito di tutto punto e uno col camice bianco, che con l’aiuto degli uomini in divisa, mi sdraiò e immobilizzò su una sedia.

A quel punto, sulla testa mi allacciò una specie di cintura di cuoio e mi passò una spugna imbevuta d’acqua.

Mi scappò da ridere: mi capitava sempre quando al mare mi si tirava l’acqua! Non stavo più nella pelle, così mi rivolsi all’uomo in bianco:

“Sto per diventare invisibile, vero?”

Prima di rispondere, l’uomo si guardò attorno, sembrava quasi cercasse un suggerimento. Poi mi fissò dritto negli occhi e mi disse:

“Certo figliolo…certo…non preoccuparti “

“No, no…non mi preoccupo affatto! Sono pronto!”

Nuovamente, l’uomo in bianco si scambiò degli sguardi con tutti i presenti, i quali, prima di uscire dalla stanza, con la testa fecero cenno di proseguire.

Con me rimase solo l’uomo in bianco, che si avvicinò alla leva che mi avrebbe reso invisibile. Fu un istante: una, due scosse che mi attraversarono dalla testa ai piedi, facendomi sobbalzare dalla sedia e catapultandomi in una dimensione totalmente nuova.

Da quel momento, tutto buio intorno a me. Ma ero diventato invisibile!

Peccato che da quel buio non sia mai più riuscito a tornare indietro a riabbracciare i miei. Ogni giorno passo da loro, ma loro non lo sanno, non mi vedono.

Io ho vinto il gioco, si, ma adesso il gioco non mi piace più, e quel che ho voglia è solo di ritornare a riabbracciarli e gridare i loro nomi.

E non importa se dovrò restituire l’invisibilità, ciò che importa è ritornare a gioire della mia vita insieme a loro!