Racconto di Maria Francesca Laganà

(Prima pubblicazione)

 

 

Si sarebbe venduto l’anima pur di portare a termine la missione. Non poteva fermarsi ora, a un passo dal traguardo.

Era sempre stato cocciuto, sin da bambino. Di una caparbietà altezzosa, che lo induceva a guardare i comuni mortali dall’alto in basso. Gli apparivano come gettati sulla terra per sbaglio, tali e quali alle bestie che si trascinano di qua e di là senza una meta, infine scompaiono e non lasciano di sé nessuna traccia.

Il professor Annibale Tarchetti, invece, una traccia sulla terra l’avrebbe lasciata, e anche bella grossa: era venuto al mondo per portare a compimento un progetto grandioso, il suo nome era destinato a brillare come un astro nella volta celeste.

«La superbia va a cavallo e torna a piedi» gli diceva sua madre. Non aveva perso tempo ad ascoltarla. Erano farneticazioni di una donna inetta, buona soltanto a rammendare calzini e lavare pavimenti. Anche lei, pace all’anima sua, era stata una bestia al pari degli altri, della sua filosofia spicciola non sentiva la mancanza.

Nessuno lo avrebbe costretto a scendere da cavallo. Piuttosto, per celebrare il suo trionfo sarebbe balzato su un carro, come i grandi generali dell’Urbe.

L’umanità tutta gli avrebbe tributato i meritati onori.

 

L’evoluzione umana lo aveva sedotto dai tempi della scuola. Aveva consumato gli anni migliori a decifrare quel cespuglio intricato di specie, a ricomporlo in uno sviluppo lineare, a studiarne peculiarità e tratti comuni, rimboccandosi le maniche ogni qualvolta una nuova scoperta metteva in discussione la precedente e lo costringeva a modificare l’incastro di tessere dello straordinario puzzle che era l’ominazione.

Era stato però il fattore Rhesius a fargli perdere la testa.

Il fatto che il sangue di una piccola percentuale dell’umanità, diversamente dagli altri primati, ne fosse privo ,lo aveva indotto a formulare la teoria che di lì in poi sarebbe stata il fulcro dei suoi studi: la specie umana in un certo momento della sua evoluzione aveva incrociato una specie differente, e dall’ibridazione era nata una nuova stirpe di uomini, unici e irripetibili, esseri che potevano donare il proprio sangue agli altri ma potevano riceverlo soltanto da altri esseri come loro.

No, no, niente alieni; aveva un quoziente intellettivo troppo alto per credere a un’ipotesi tanto insulsa. Erano stati gli dèi, all’ombra di una civiltà fiorita nella notte dei tempi, ad accoppiarsi con i mortali, generando una progenie eccelsa destinata a governare il mondo. Lui stesso ne faceva parte, anche lui era privo dell’antigene Rh. Gli era toccato il compito di precursore: doveva risvegliare gli uomini dèi dal torpore, affinché ponessero la loro superiorità al servizio del genere umano, guidandolo verso alti destini.

 

Si era gettato a capofitto nello studio, notte e giorno, nella semioscurità del sotterraneo in cui lo avevano relegato. Aveva scomposto migliaia di genomi, alla ricerca febbrile dell’anello mancante. C’era marcito anni interi, lì sotto, isolato dal consorzio umano, in compagnia della polvere e degli scarafaggi. Il mondo accademico lo aveva sostenuto solo all’inizio, poi gli aveva voltato le spalle. Troppo bizzarre le sue idee, infondate, improponibili, inaccettabili… vuole forse che ci ridano dietro?

Non se ne stupiva. La maggioranza dei colleghi apparteneva all’altra specie, quella delle scimmie civilizzate. Bastava osservare Barresi: la voracità con cui spolpava le alette di pollo fritto in pausa pranzo, insozzandosi la bocca di unto misto a ketchup e trangugiando in simultanea una pinta di birra, era la prova evidente del suo apparentamento col Neanderthal. E cos’erano gli assistenti se non dei macachi ammaestrati? Avrebbero fatto meglio a tornarsene sugli alberi invece di fissarlo con gli occhi stravolti, limitandosi a eseguire gli ordini senza che mai nella mente gli sprizzasse un barlume d’inventiva, o anche soltanto una confutazione ingegnosa. Tempo uno due mesi e supplicavano di essere trasferiti altrove; di ammuffire in cantina insieme a lui ne avevano piene le tasche.

Ce l’aveva fatta, alla fine, contro tutto e tutti. Era riuscito a scovarlo. Un frammento minuscolo, infinitesimale, celato in una sequenza atipica, non riconducibile al DNA di nessun essere vivente. Incredibile! La sua scoperta avrebbe sovvertito l’intera storia del genere umano, spalancato scenari inauditi. Per il momento, però, meglio tenere la notizia per sé. C’era una miriade di genomi da ricontrollare, uno per uno, tutti, nessuno escluso. Qualora uno soltanto non avesse contenuto il gene ignoto, la fiammella che aveva acceso la notte nello scantinato dell’università si sarebbe spenta, irrimediabilmente.

E per lui sarebbe stata la fine.

 

«Professore, cos’ha? Si sente male?».

Luce Corsini, specializzanda al secondo anno di Genetica molecolare, lo osserva impalata accanto alla porta, una pila di carte in mano, lo sguardo da coniglio imbelle dietro le lenti spesse.

Eccola lì, la sua rovina.

«Sto benissimo. Lascia le carte sulla scrivania e fila a controllare i dati di ieri» le risponde il professore alzando a malapena la testa dal microscopio.

Non gli era piaciuta dal primo istante, quando l’aveva accolta sulla soglia del laboratorio alla maniera in cui accoglieva tutti i macachi ammaestrati, e il sorriso le si era smorzato sulle labbra. Eppure, avrebbe dovuto capirlo già dal nome che quella sottospecie di Alice nel paese delle meraviglie in camice bianco sarebbe stata foriera di sventura. Una femmina non può portare luce nella vita di un uomo, semmai vi può far scendere il buio.

«Non t’illudere, non sarà una passeggiata. Tempo un mese e te la darai a gambe anche tu, come gli altri».

Invece era trascorsa l’estate ed era ancora lì, più viva che mai. Si era appassionata alla ricerca come nessuno dei predecessori. Continuava a starnazzare che stava dalla sua parte, senza riserve, che le sue teorie la emozionavano -Che bello, professore, anche il mio sangue è Rh negativo, anch’io appartengo alla stirpe degli uomini dèi, anch’ io sono una privilegiata! –

Erano secoli che il professore non faceva più proseliti, l’euforia di Luce lo aveva contagiato.

Fino al giorno della richiesta.

«La prego, analizzi il mio DNA, devo sapere, la prego!»

Da tempo il professore non aggiungeva più alcun campione alle migliaia in suo possesso. Si era imposto dei limiti, la ricerca non può essere infinita. Luce lo aveva convinto a ritornare sui suoi passi.

Se non l’avesse ascoltata adesso non sarebbe nella merda. Sarebbe sull’aereo per Stoccolma, a ritirare il Nobel… se solo quell’idiota di una scimmia a due zampe non fosse mai entrata nella sua vita.

 

«Professore, guardi qui le mie mani. Non le pare che oggi le vene siano più evidenti? Il sangue mi sembra più scuro del solito oggi. A proposito! Non ha ancora pubblicato i risultati della ricerca, cosa aspetta? Si ricordi di riservarmi un posto d’onore accanto a lei quando le prenoteranno l’aereo per la Svezia».

Il professor Tarchetti guarda Luce. È di spalle, sta mettendo in ordine le provette sullo scaffale. Non smette di parlare, la voce gracchiante gli raschia il cervello come una sega elettrica.

La osserva e maledice il giorno in cui le loro strade si sono incrociate.

Le ha analizzato il DNA, una, due, dieci, cento volte… niente! Neanche la più microscopica particella del prezioso gene. Niente di niente.

Fra migliaia di essere umani, soltanto Luce non possiede la scintilla divina, e lui non è in grado di spiegarsi il perché.

Ha rovinato tutto. Anni e anni di fatica, di studio, di attese, vanificati per colpa di quell’idiota, polverizzati. Se solo si fosse tappata la bocca invece d’insistere, se non avesse mai messo piede nel suo laboratorio… se non fosse mai nata.

Le si avvicina alle spalle, a passi lenti, felpati, il microscopio in mano, la faccia pallida, stralunata, le gambe tremanti.

Luce si gira di scatto.

«Professore, mi dica, ha bisogno di qualcosa?»

«Lurida scimmia maledetta! Vattene all’inferno!»