Racconto di Myriam Ambrosini

(Seconda pubblicazione – 29 luglio 2019)

 

Era lì, piantata solenne sulle quattro gambe di legno, eppure fragile nella sua immobilità.

Allora capii la morte, ne assaporai i sussurri leggeri che l’avevano preannunziata, percepii il suo alito pesante che aveva intossicato la casa, rabbrividii al contatto del suo gelo che aveva lasciato tanto silenzio intorno a me.

Guardai ancora una volta la sedia vuota, ne accarezzai il lungo schienale, la seduta un po’ logora, un po’ scolorita; ne misurai l’altezza, la larghezza, la profondità: era lì tutt’intera, viva nella sua realtà, morta nella sua nudità.

Pensai allora alla sedia di Van Gogh ed acutamente ne decifrai la straziante tristezza desolata.

La morte non era nelle stanze che la persona amata aveva attraversato, non era nel suo letto, né nel suo spazzolino da denti; non era neppure nella sua fotografia sul mio comodino, né nei suoi vestiti appesi nell’armadio: la morte era lì, in quella sedia vuota che mi guardava di sbieco, terribile, insensibile, disumana.

La morte era in quella mano che non batteva più inquieta sui braccioli, era la mancanza di quello scricchiolio leggero che assecondava i movimenti di chi vi sedeva, era l’immagine netta che ogni giorno la sua sagoma proiettava in quell’angolo della parete, così ripetitiva così abitudinaria, così rassicurante.

La morte era lì, ormai padrona della sedia, sprofondata mollemente in essa.