Racconto di Maria Pia Rosati

(Settima pubblicazione)

 

 

In questi mesi che tutti trascorriamo chiusi in casa, nel tentativo di attraversare i momenti di noia, mi ritrovo anch’io a curiosare sui social. Proprio stamattina ho trovato una richiesta di amicizia che mai mi sarei aspettata. E dal mio lontano passato è spuntato lui: Duccio. Che nome strano, mi direte. Questo è il vantaggio di aver conosciuto qualcuno con un nome così particolare: nell’arco di una vita te ne può capitare uno soltanto, per cui non ti puoi sbagliare, non puoi confonderlo con qualcun altro. E lo ricordi per sempre. Rimango spiazzata e indecisa se sia il caso che lo degni di una mia risposta e lo ammetta fra il mio ristretto numero di “amici”. Quel nome insolito mi riporta d’improvviso ai miei sedici anni e tutto mi appare chiaro e nitido, come fosse adesso.

Fu proprio all’inizio di quell’inverno che, insieme alle mie amiche, feci il mio primo acquisto importante. Convinsi mio padre a darmi il denaro necessario per comprare un loden blu che avevo visto in una vetrina e, con quello che restava, anche una sciarpa di cachemire a quadretti bianca e grigia, morbida e caldissima, che annodavo a mo’ di fiocco intorno al bavero del cappotto. La tenevo anche quando ero a scuola: quel pelo soffice, oltre a scaldarmi, era divento il capo comfort che mi proteggeva dall’adolescenza. All’occorrenza mi riparava dagli sguardi che non riuscivo a sostenere quando la tiravo su fin sotto il naso e nascondevo gli occhi sotto i Ray Ban. Insomma, mi piaceva talmente tanto che la toglievo solo alla sera per andare a dormire.

Poco tempo dopo conobbi lui: Duccio. Lo vidi per la prima volta in sella alla sua Vespa 50 grigia. Era molto alto e aveva spalle imponenti, così a vederlo ritto sulla sella era piuttosto buffo: per la sua stazza sarebbe stata più adatta una moto di grossa cilindrata, magari una Suzuki come andava di moda allora. Duccio si era da poco trasferito dalla Toscana, da qui l’origine del nome, non aveva ancora amici, soltanto il compagno di scuola che ci aveva presentati mentre aspettavo l’autobus sulla piazza del paese. E da subito avevo capito che mi piaceva perché era diverso dagli altri. Era riservato, talvolta timido, pacato e senza alcuna voglia di mettersi in mostra come i suoi coetanei.

Non si faceva notare, non vestiva con le felpe e il piumino firmato. Aveva un suo particolare modo di muoversi, di parlare e il suo look volutamente trasandato lo rendeva affascinante, anzi irresistibile. Almeno per me.

Quell’inverno fu particolarmente rigido, con tante giornate di pioggia. Così quando ci mettemmo insieme, non avevamo altro posto dove incontrarci che stare a casa mia. Ricordo che trascorrevamo tutto il pomeriggio nella mia stanza: ascoltavamo la musica, qualche volta suonava con la chitarra le canzoni di Battisti, mi raccontava di sé e della sua amata Toscana con una voce modulata che mi rilassava: rimanevamo per ore sul mio letto e ci stringevamo stretti. Non facevamo sesso se è questo che volete sapere: per la mia generazione a sedici anni era ancora troppo presto. Però ricordo che con lui stavo bene. Trascorrevamo delle ore felici: era la mia prima vera storia e mi sentivo molto innamorata. E anche lui sembrava molto coinvolto, non avevo esperienza, ma non potevo sbagliare: lui era innamorato quanto me. Progettavamo di fare lunghe passeggiate al lago all’arrivo della primavera, di andare in campeggio al mare d’estate. Stare con lui era pura felicità, lo ricordo bene.

Una sera, quando salì sulla Vespa per rientrare a casa, faceva molto freddo; stava cominciando a piovere e lui aveva addosso solamente un k-way azzurro. Lo abbracciai e mi venne istintivo mettergli al collo la mia adorata sciarpa grigia. Gliela avvolsi stretta così che potesse sentire l’odore

della mia pelle e sentirmi vicina, una volta tornato a casa. Lo so cosa state pensando: una ragazzina romantica e piuttosto ingenua. Viene da sorridere anche a me, mentre lo ricordo. Ma sono sempre stata istintiva, capace di slanci improvvisi e irrefrenabili. Si può essere misurati nei sentimenti a sedici anni?

Dopo pochi giorni, inspiegabilmente, come un fulmine a ciel sereno, il carissimo Duccio mi confessò, in poche parole, che non se la sentiva più di stare con me. Così su due piedi, senza una ragione. E lo disse con una voce dura che non gli conoscevo: mi mollò mentre era nella mia casa, anzi nella mia stanza, seduto sul mio letto con lo sguardo fisso sul pavimento, senza guardarmi negli occhi. Non si prese neanche il disturbo di congedarmi in un luogo più adatto alla situazione. Scese le scale di corsa, con me che gli correvo dietro incredula, senza riuscire a pronunciare una parola. Lo vidi salire sulla sua Vespa grigia e, senza nemmeno girarsi a salutarmi, se ne andò per sempre dalla mia vita; io, intirizzita, davanti al cancello, lo vidi allontanarsi con la mia amata sciarpa grigia che sventolava come per salutarmi. Come avrei potuto pensare di strappargliela dal collo in quel momento? Ricordo che soffrii moltissimo e la perdita della sciarpa rese ancora più amaro quell’abbandono. Passai un periodo di grande tristezza con una domanda che mi tormentava: perché? E non riuscivo a trovare una risposta.

Che arrivò dopo pochi giorni. Allora non c’erano i social, ma le cattive notizie correvano lo stesso e anche molto velocemente. Mi era arrivata voce che il mio amato Duccio” usciva”, si diceva così, con una ragazza molto vistosa, con i capelli a caschetto color platino, che abitava in un paese vicino e frequentava la sua stessa scuola. Era una delle poche ragazze a frequentare l’istituto tecnico per geometri, pertanto era nota a tutti gli studenti e probabilmente l’aveva conosciuta piuttosto in profondità anche il mio timido e riservato Duccio. Ma questa notizia mi faceva talmente male da convincermi che fosse solo una chiacchiera.

Una mattina persi l’autobus che abitualmente mi conduceva al mio liceo. Per non arrivare tardi, ne presi un altro che percorreva un tragitto più lungo. Fu quando il bus si fermò per far salire gli studenti che, pigiata fra la folla, guardando fuori dal finestrino, vidi dall’altra parte della strada ad attendere l’autobus in direzione opposta, una bionda ossigenata, truccata con tanto di rossetto vermiglio alle 8 del mattino; in una manciata di secondi, quelli che impiegò il bus per far salire i passeggeri, mi accorsi che indossava un piumino giallo e qualcosa intorno al collo che mi era familiare: la mia sciarpa grigia! La riconobbi subito, non poteva che essere lei. La mia incredulità si trasformò in stupore, poi in rabbia, infine in pianto. Non ebbi la prontezza di farmi largo a spintoni in mezzo alla folla, guadagnare l’uscita, scendere dal bus, attraversare la strada e strappare dal collo di quella fotocopia di Barbie la mia amata sciarpa. Ci misi un attimo a capire come fosse finita al collo di quella sconosciuta. Con che coraggio aveva osato darla a lei, dopo che gliel’ avevo regalata con tanto amore? Al dolore dell’abbandono si aggiunse quello per la sua slealtà. E così rimasi schiacciata fra la folla mentre l’autobus ripartiva, lei che se ne stava ancora lì ad aspettare come nulla fosse, mentre amare lacrime avevano cominciato a scendermi senza ritegno. E riesco a confessarlo soltanto ora: è la prima volta che racconto questo episodio che ha segnato la mia vita sentimentale. Da allora cerco sempre di chiedermi se la persona che sta con me sia realmente felice oppure non sia io a voler credere che l’amore di uno possa bastare per tutti e due. Da allora ho cercato di non illudermi e di valutare razionalmente le situazioni sentimentali.

Venni poi a sapere che la storia di Duccio con la platinata era stata di breve durata. Troppo appariscente lei, troppo riservato lui. Si diceva che gli avesse preferito un ventenne alquanto danaroso che girava con un fiammante Maggiolino nero. Altro che Vespetta grigia! E lui ci era rimasto malissimo, perché era stato clamorosamente mollato, così dicevano. E ne fui contenta.

Ma la mia amatissima sciarpa che fine aveva fatto? Se ci ripenso, sento ancora il buco nello stomaco per l’orgoglio ferito. Se accadesse oggi si potrebbe scrivere un messaggio del tipo: “Puoi dire alla tua Marilyn di restituirmi la sciarpa? Grazie” oppure “Ridammi la sciarpa, così poi la stringo al collo di tutti e due!” Ma allora non funzionava così e i contatti passavano solo attraverso il telefono fisso. Oltretutto l’offesa subita aveva destabilizzato anche la mia autostima. In fatto di look pensavo di essere già avanti rispetto alle mie coetanee con i peli neri sulle gambe, i brufoli sul viso e le lenti da vista spesse come fondi di bottiglia. Cercavo di migliorare il mio aspetto con i mezzi che avevo a disposizione: non appena i miei capelli di bambina color biondo cenere si erano trasformati, con l’adolescenza, in un triste grigio topo, avevo chiesto al parrucchiere di schiarirli con dei colpi di sole e modellarli con un taglio scalato. Ed ero l’unica nella mia classe ad andare dal parrucchiere, l’unica ad andare a scuola con il mascara e il lucidalabbra, l’unica ad usare la cera a caldo che strappava i peli ma lasciava poi la pelle chiazzata di rosso per le ustioni.  Non potevo di certo immaginare che una versione post-moderna di Marilyn Monroe incrociata con una Barbie potesse colpire tanto i maschi della mia generazione, che una tipa del genere potesse attrarre il mio Duccio così riservato, così discreto, così raffinato. E da quel giorno ho capito quanto la capacità di sedurre conti nelle faccende d’amore.

Lo rividi dopo parecchio tempo: girava per il paese con una Mehari arancione con la plastica tutta a buchi al posto dei vetri e mi sembrò ancora più affascinante: un vero figo. Un tipo così, sul genere radical chic, piacerebbe anche oggi, ne sono certa. Ogni volta che lo vedevo passare il cuore mi sobbalzava e il pensiero andava alla perduta sciarpa grigia. Poi non l’ho più visto o magari non l’ho più riconosciuto perché aveva cambiato macchina e non si faceva notare, Insomma, non ne ho saputo più nulla fino ad oggi. E facendo un rapido calcolo sono passati all’incirca quarant’anni.

E adesso mi chiedo e vi chiedo: posso perdonarlo? E’ giusto, secondo voi, mandargli i miei saluti e concedergli la mia amicizia? Adesso che ci penso, sono ancora molto arrabbiata, anzi di più. Aveva tutto il diritto di mollarmi, ma non di disprezzare il mio amore. Quella prima volta, a distanza di tanti anni, ha ancora il sapore amaro per l’aggravante dell’offesa.

Lo sai che ti dico, caro Duccio? Non mi importa che tu sia diventato un architetto di gran fama, non voglio nemmeno sapere se giri ancora con la Mehari arancione o su una Cayenne. Mi interessa ancor meno sapere se sei ancora un gran figo e se hai trovato nel corso degli anni un’altra tanto innamorata da annodarti la sua sciarpa preferita al collo. Voglio solo ignorare il tuo messaggio e, se hai buona memoria, saprai anche perché.

Addio.

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