Racconto di Margit Horsky

(Seconda pubblicazione)

 

 

Il colpo secco della porta che si chiudeva alle sue spalle sembrò echeggiarle nel cuore. Si tastò il fianco per assicurarsi che nella tasca del giubbotto ci fosse il cellulare. Non sarebbe stato necessario, era in modalità silenziosa e di lì a poco percepì la vibrazione dell’ennesimo messaggio.

Zaino con le cose essenziali in spalla, in mano un borsone con abiti ammassati alla svelta, scese le scale veloce, quasi a evitare che una parte di lei potesse raggiungerla, fermarla. Nell’androne riprese fiato, aprì il portone con cautela, guardò a destra e a sinistra: nessuno. Si infilò nel taxi con un leggero senso di nausea.

«Alla stazione centrale, per favore».

Il taxista borbottò qualcosa e partì, facendo dondolare l’alberello deodorante attaccato allo specchietto retrovisore.  Cercò di ignorarne l’intenso odore di pino.

Il treno era già al binario, salì e si lasciò cadere su un sedile vicino al finestrino. Il cellulare continuava a vibrare. Lo tolse finalmente dalla tasca e controllò. Tre chiamate da Elisa. E una decina di messaggi da altre amiche. Tutte a chiedere dov’era, perché non era ancora arrivata. Mancava solo lei. Lo rimise in tasca.

Il treno si mosse. Guardò come si lasciava dietro le poche persone sulle piattaforme, manichini tristi in una vetrina spoglia. Vide scorrere lentamente le colonne delle pensiline, le panchine di marmo, il distributore di bibite, l’ultimo edificio della stazione. Poi il finestrino le restituì la sua faccia riflessa, fuori il buio. Quando il treno prese velocità tirò un sospiro di sollievo. Ce l’aveva fatta. Tra poche ore sarebbe stata lontana, irraggiungibile.

***

Tutto era andato secondo le previsioni: laurea col massimo dei voti a ventiquattro anni, specializzazione in architettura a Berlino, un rapporto solido con Claudio, il fidanzato dai tempi della scuola, l’assunzione presso uno studio prestigioso. La sua vita non sembrava poter uscire da quei binari lucidi e perfettamente paralleli in corsa verso un futuro ancora più roseo.

Poi la malattia di suo padre, breve e implacabile. Lui che, da quando la mamma non c’era più, era stato la sua forza. Non importava quante persone avesse intorno, si sentiva abbandonata. All’improvviso la sua vita perfetta non era più tale. Il lavoro non le dava più entusiasmo, era solo un dovere. Le cose che avevano riempito la sua esistenza erano diventate, improvvisamente, insignificanti. Claudio era stato ancora più dolce, più vicino, ma non riusciva a lacerare quel velo di avvilimento che la avvolgeva.

«Non fraintendermi, non può essere solo perché tuo padre non c’è più» le aveva detto Elisa. «Non hai mai incontrato ostacoli finora, tutto è sempre filato liscio. Questo lutto ti mette alla prova, tira fuori problemi di fondo. Forse hai bisogno di nuovi stimoli, di riconsiderare le tue priorità. Perché non vai via per un po’, da sola?»

Ne aveva parlato con Claudio e lui aveva trovata la cosa bizzarra: non era certo la solitudine che avrebbe curato il suo senso di abbandono. Semmai una vacanza insieme su una bella isola tropicale, aveva replicato, un anticipo di viaggio di nozze. Lei sentì un groppo alla gola.

Un’amica, di vecchia data, incontrata per caso le fornì la soluzione. All’università avevano condiviso la passione per la fotografia e le raccontò di un viaggio in Islanda fatto qualche mese prima, un workshop prolungato in cui si approfondivano tecniche di ripresa e si visitavano luoghi spettacolari. Una settimana in mezzo a una natura aspra e maestosa. Ne parlava come di una esperienza totalizzante, che era in grado di curare qualsiasi paturnia, oltre ad arricchire il proprio bagaglio di conoscenze tecniche. E poi, se era fortunata col gruppo, si stringevano amicizie interessanti, persone provenienti da varie parti del mondo.

Le sembrò un’idea fantastica. Era l’occasione per partire da sola senza ferire Claudio, che di fotografia non si era mai interessato. Non era la stagione migliore per l’Islanda, così cercò altre mete possibili. La scelta cadde sul Marocco, un paese che aveva sempre desiderato visitare. Presa la decisione, non vedeva l’ora di partire, si sentiva elettrizzata, perfino il rapporto con Claudio ci aveva guadagnato. Lo aveva tranquillizzato: era con un gruppo, erano solo 7 giorni. Poi, una volta tornata, avrebbero cominciato a cercare casa, come lui desiderava da tanto tempo.

Era bastato uno sguardo. La chimica dei corpi aveva agito contemporaneamente su entrambi, li aveva colpiti a tradimento, come una grandinata primaverile. Non aveva mai creduto a chi parlava di colpo di fulmine, lo riteneva un’invenzione letteraria.  Ed eccola lì a fare le cose più scontate: stare tra le braccia di Sebastian e poco dopo rassicurare Claudio al telefono che tutto andava bene, il gruppo era simpatico e lui le mancava. Dove era finita la sua onestà? Eppure non si sentiva in colpa. Quando ci pensava, si giustificava fra sé e sé, la riteneva un’esperienza necessaria, un rito di passaggio. A quasi tutte le sue amiche era capitato di prendere una sbandata, per poi rientrare velocemente in carreggiata. Aveva fatto male i conti. Sebastian non aveva solo il fisico affascinante del fotografo di viaggio; era colto, pieno di interessi, profondo e sapeva toccarle il cuore. Quando si erano separati non si erano promessi niente. Lei, almeno con lui, era stata onesta, gli aveva detto di Claudio, del matrimonio come prospettiva vicina nel tempo. Lui non aveva cercato di convincerla a cambiare idea.

Era stata un’avventura piacevole, ma un’avventura, si ripeteva lei. Chissà quante volte gli era successo, con altre donne, di gustare un tè aromatizzato con foglie di menta tra il profumo inebriante di zagare, camminare lungo il molo di Essaouira tra i richiami dei venditori di pesce, guardare come al tramonto le ombre stilizzate dei cammelli si allungavano sul deserto. Donne, che in un contesto esotico, quasi magico, dimenticavano vita e doveri di tutti i giorni, che assaporavano un po’ di avventura lontane da una perfetta vita borghese.

Potevano rimanere amici, si erano detti.

Si sbagliavano. Dopo cinque giorni Sebastian le scrisse che gli mancava; se era d’accordo, sarebbe stato a Venezia quel fine settimana. La città dove aveva studiato e vissuto per anni le sembrò nuova, più luminosa insieme a lui. I percorsi, tra calli sconosciute ai turisti, erano un labirinto incantato. La decadenza degli edifici intaccati dal tempo e dalla salsedine non faceva che esaltare la loro voglia di vivere. Due settimane dopo lo raggiunse a Vienna, con la scusa di un convegno.  Ormai non era più solo un colpo di fulmine, se ne rendevano conto entrambi.

Prese coraggio e confessò tutto a Claudio. Gli disse che non era più possibile pensare ad una vita insieme. Lui diede la colpa all’infelicità per il lutto subito. Certo non era facile da digerire, ma non potevano mandare tutto all’aria dopo anni in cui il rapporto era stato appagante, profondo. Lui capiva, perdonava. Lei invece non capiva cosa c’era da perdonare. Chiese comunque tempo per pensare.

E cominciò a sentirsi viva, a provare sensazioni inaspettate, a mettere in discussione quelli che credeva valori fondamentali: un lavoro soddisfacente, un matrimonio tradizionale, una maternità a tempo debito. L’approvazione di chi le era caro. C’erano solo lei e Sebastian e la scoperta di un nuovo sentire. Era sempre stata così bella la nebbia che si alzava dai campi? Così scintillante la brina sulle foglie e le recinzioni alla mattina? Le mele erano sempre state così dolcemente asprigne e croccanti?

La lontananza e le occupazioni, tanto diverse, erano il loro unico problema; fecero progetti per cercare soluzione. Poi lui partì per un lungo reportage in Sudamerica.

E Claudio tornò alla carica, la corteggiò come non aveva mai fatto. Promise più di quanto fosse credibile. Pianse. Lei si sentì in colpa per il male che gli faceva. Come poteva trattarlo così, dopo tutto quello che avevano condiviso?

Poi ci si misero le amiche, i colleghi, i parenti: tutti a dirle che bisognava diffidare degli amori scoppiati in vacanza, in momenti di crisi. Non poteva gettare tutto all’aria. Cosa avrebbe pensato suo padre se fosse stato vivo? Come le veniva in mente di lasciare una carriera promettente? Di trasferirsi all’estero così, senza un progetto solido? Di lasciare l’amore di una vita per uno che conosceva appena?

Senza Sebastian vicino era difficile far fronte a quel muro compatto. Tentennò. E tornò tra le braccia sicure di Claudio, ferita e consapevole che era la cosa giusta.

***

Il controllore la distrasse dai suoi pensieri. Gli diede il biglietto e tornò a scrutare il buio della notte.

Il suo riflesso ora si confondeva col viso sofferente di suo padre che le diceva di non piangere, lui aveva avuto una vita felice ed era quello che si augurava per lei.

Pensò all’abito bianco appeso alla porta dell’armadio. La tiara di fiori d’arancio, inodore, vicina allo specchio. Le scarpe di raso sul pavimento. Pensò alla fedina di brillanti sul comodino di Claudio. Senza un biglietto, senza un addio. L’avrebbe trovata quando, allertato dalle amiche, fosse andato a cercarla, interrompendo l’addio al celibato. Oppure la mattina dopo, non vedendola in chiesa.

Si sarebbero stupiti tutti. Lui no, avrebbe capito. Non avrebbe dovuto insistere, sapendola innamorata di un altro. Aveva cercato per mesi di soffocare quell’amore, ci aveva provato davvero. Ma era bastata la telefonata di Sebastian poche ore prima, la sua voce triste che le augurava di essere felice e prometteva che lui ci sarebbe stato sempre.

Prese il cellulare e digitò poche parole “Domani mattina alle 7.15 alla WienHauptbahnof. Vieni a prendermi?”