Racconto di Italo Falcier

(Seconda pubblicazione)

 

È ovvio che non conosciate il regolamento, se in passato non siete mai morti.

Ve lo spiego io, così vi racconto anche cosa mi è successo.

Immaginatevi una banale raccolta punti, una di quelle che propongono gran parte dei supermercati. Ecco, più o meno funziona allo stesso modo. Tu in vita fai delle cose gentili, dei gesti nobili, sei altruista, disponibile: bene, allora accumuli punti — tu non lo sai, ma accumuli punti — che poi quando trapassi ti tornano utili.

Un giorno mi chiamano in ufficio — perché anche nell’aldilà non si può mai stare in santa pace — e mi dicono: «Signor Falcier, i punti che lei ha accumulato le danno diritto ad un bonus».

«Ma come, un bonus solo?» ho protestato. «Il mio compagno di stanza ne ha quattro e, voglio dire, non mi pare che sia proprio… con tutto quello che ha combinato… insomma, ci siamo capiti!»

È stato lì che mi hanno spiegato questa faccenda dei punti. E anche della franchigia. In pratica, fino ad un certo livello la buona azione è considerata il minimo, la base, una cosa normale insomma, che non fa punteggio. Tipo: se alla cassa del supermercato fai passare avanti quello che deve pagare solo il litro di latte, hai fatto un bel gesto ma il computer che sta lì sopra registra che è sotto soglia e quindi non maturi il punto. Se invece trovi un portafoglio gonfio di soldi e lo restituisci al proprietario, allora sì che il punto ti viene assegnato. Se incontri un mendicante…

«Va bene, va bene, ho capito la faccenda del minimo e della soglia però, voglio dire, anche considerato questo, voglio dire, un bonus solamente!»

«Se intende presentare reclamo, lì c’è il modulo. Ma prima le consiglio di analizzare con calma com’è stata la sua condotta terrena. Sa, i nostri computer non sbagliano mai. Troppi ne ho visti arrivare qui che si sentivano dei santi ma poi, stringi stringi…»

«No, no, dicevo così, per dire. Magari ad averlo saputo prima uno… Vabbè, fa niente! Ma a cosa mi serve questo bonus?»

«Le dà diritto a tornare sulla terra e farsi riportare in un qualunque momento della sua vita, a sua scelta, dove potrà rettificare una cosa che non le piace nel suo passato. Questa operazione non cambierà il corso di quello che sono stati i fatti successivi, cioè non ha il potere di modificare le conseguenze di quell’azione che decide di correggere, ma dà a lei la possibilità di rimediare a qualcosa di cui si pente e che le pesa sulla coscienza. L’autobus che la porterà a destinazione partirà domani mattina dal piazzale qui vicino. Mi raccomando la puntualità».

Lì per lì non mi sembrava una cosa complicata. La mia coscienza non è certo butterata come la faccia della luna, ma nemmeno liscia e vellutata come una pesca, per cui non mi sarebbe stato difficile scegliere una mia cattiveria, una mascalzonata della quale mi turbava il ricordo e scrollarmelo di dosso in due e due quattro. Così pensavo, e invece.

In realtà la selezione finì per risultarmi più complicata del previsto. Mi veniva in mente una idiozia che avevo combinato? “Ok, scendo sulla terra a rimediare a questa” dicevo tra me e me, ma subito ecco spuntarne un’altra che stava nascosta nel cassetto più in basso della mia memoria. E mentre pensavo a questa, si faceva breccia quell’altra mascalzonata che credevo di aver rimosso. Era un po’ come prendere il pennello intriso di vernice per coprire una macchiolina sul muro; ti avvicini e ne vedi un’altra, guardi bene ed eccone una terza, e poi un graffietto, e il segno lasciato da una zanzara spiaccicata, lo schizzetto di sugo che avevi pulito con la spugnetta ma è rimasto l’alone. Insomma, piccole vergogne alle quali hai fatto l’occhio ma che sarebbe simpatico poter eliminate. Il problema è che io avevo a disposizione solo una pennellata e non un intero barattolo di pittura.

Non ci ho dormito la notte. Pian piano, però, le idee mi si andavano chiarendo. Perché in realtà io lo sapevo benissimo che le patacche più ripugnanti erano altre, occultate dietro ai mobili che avevo messo di fronte per nasconderle a me stesso. Chiazze che tante volte avevo tentato di lavare strofinandole perfino con la candeggina, ma si erano solo un po’ sbiadite restando ben visibili e odiose alla mia coscienza.

Fregandosene delle mie preoccupazioni, la notte era trascorsa e io, carico d’ansia, mi sono presentato in piazza. Il bus ha aperto le porte. Sono salito. Ho consegnato il foglietto al conducente con la destinazione che avevo deciso: ospedale di Treviso, 12 settembre 2002, ore 15. Ed è lì che sono sceso. «Ripasso a prenderla tra un’ora». «Va bene».

Adesso bisognava farsi forza. A quel tempo — quello che a me ora veniva concesso come presente, ma che in realtà apparteneva al mio passato — non seppi trovare il coraggio per entrare, per dirigermi verso il letto di R. a salutarlo per l’ultima volta prima che…

Entro. Questa è la stanza. Sono sulla soglia. Mi manca l’aria. Il cuore terrorizzato mena colpi come se cercasse di scappare dalla prigione di una automobile che si sta inabissando in un fiume. In testa ho il frastuono di un treno che entra sparato in galleria. Nelle gambe tremori di panico mi ordinano di scappare. Mi sento come investito da una folla che corre in senso contrario, che mi urta, che mi urla, che sta per trascinarmi via.

Sono sempre stato così: ho riluttanza verso la carne che soffre dilaniata dalla violenza o lacerata dalla malattia o corrosa dal naturale decadimento. Mi sconvolge la vista di membra in sfacelo, degli spasmi di organi impazziti. Non riesco a sopportare il tormento delle persone costrette ad assistere impotenti al degrado del proprio organismo. Mi atterrisce anche il solo pensiero che attaccato ad un corpo in dissoluzione possa esserci un cervello ancora lucido e cosciente della irreversibile rovina.

“Preferisco ricordarmelo da vivo”. Anch’io uso questa scappatoia, questa via di fuga che non mi porta mai in salvo ma dritto dentro a un rimorso atroce, al tormento di aver sì protetto me stesso girando la testa da un’altra parte, ma di avere così negato ad un amico il conforto della vicinanza, della partecipazione, del sostegno che non lenisce, non cura, ma rassicura dall’abbandono, dall’oblio, che sono le ultime tremende paure di chi sa di dover presto sparire nell’oscurità totale.

«Vieni avanti Italo. Ti aspettavo».

Stavolta non mi voglio tirare indietro. Con la morte dentro, mi avvicino al letto.

«Ciao R.»