Racconto di Claudio Ferrata

(Prima pubblicazione – 7 giugno 2019)

 

Si rese conto di aver smarrito le tracce. La nebbia s’era infittita, una patina lattiginosa impediva di vedere al di là di un metro. A stento trattenne un’imprecazione quando inciampò sulla sbarra divelta di un passaggio a livello sepolta sotto viluppi di foglie marce. Fu una fortuna perché tra le rotaie, impresse sul legno delle traversine, riconobbe le orme della preda, due file appaiate che di botto si arrestavano e, virando a semicerchio in direzione della massicciata, proseguivano in senso opposto. S’era distratto come un principiante, ecco cos’era successo, un errore imperdonabile per un cacciatore del suo calibro, su quelle orme c’era passato vicino poco prima, riconobbe anche i contorni del rovo sul quale s’era graffiato, c’era quasi passato sopra, dannazione, e non le aveva viste. Colpa della nebbia, provò a giustificarsi, solo colpa della nebbia. Tornò all’ingresso del quartiere, un malinconico residuato urbano dove rovina e abbandono sembravano aver calato un sudario, scavalcò le erbacce cresciute tra le crepe dell’asfalto e si addentrò nella via principale, un tempo probabilmente il Corso, saettando lo sguardo nel tentativo di penetrare la caligine. Era sicuro di trovarla nei paraggi, oltre all’istinto glielo dicevano il cigolio appena udito, un leggero, quasi impercettibile strappo al lenzuolo di silenzio steso nell’aria e, subito dopo, sotto un architrave vivacizzato dai perlacei ricami delle ragnatele, la scoperta di un cassonetto con il coperchio alzato, segno che la preda, sorpresa dal suo arrivo, era scappata senza preoccuparsi di riabbassarlo. La conferma arrivò dai contorni appena visibili di un’orma, la sagoma di un calcagno scivolato dai residui di asfalto al centro della via e per una frazione di secondo sceso a intingersi nel fango. La preda non immaginava che il destino le avesse sguinzagliato dietro un cacciatore come lui, furbo, testardo, intenzionato a braccarla giorno e notte pur di appendere in salotto la sua preziosissima pelle, l’unica mancante a una collezione già prestigiosa del suo. Sorrise immaginando l’invidia dei colleghi alla vista di un trofeo da pochi in grado di essere esibito. Il pensiero che, nascosta da qualche parte, la preda spiasse i suoi movimenti gli procurò un moto di stizza che soffocò mordendosi la lingua. Doveva comunque riconoscerle una certa dose di sfortuna: in mancanza di ruggine la cerniera del cassonetto non avrebbe emesso il cigolio, lui probabilmente avrebbe tirato dritto e lei avrebbe continuato tranquilla il suo pasto. Doveva essere affamata, solo la fame poteva averla indotta a sconfinare in una zona dove la probabilità di trovare cibo era inferiore a quelle di imbattersi in un predatore. Che la supposizione fosse esatta glielo confermò la scatoletta di carne sulla quale casualmente posò il piede. Era piena per metà, con gli orli insanguinati sui quali risaltava il segno dei canini, come se nella foga di aprirla la preda si fosse ferita le labbra. Raccolse la scatoletta, l’annusò e insieme all’odore nauseante del cibo avariato, colse quello acre della paura, inconfondibile per un olfatto abituato a cogliere nelle tracce le più sottili sfumature. La schiacciò e non poté evitare una smorfia nel vedere alcuni vermi contorcersi tra i rimasugli di carne. Istintivamente si chiese quanti di quei disgustosi animaletti si stessero contorcendo adesso nello stomaco della preda e fino a che punto la paura l’avrebbe dissuasa dal mettere il naso fuori dal nascondiglio. Trattenne il fiato mentre l’udito, allenato da anni a captare il passo leggero della selvaggina, registrava un movimento a poca distanza. Il movimento si ripeté. Era il fruscio di un qualcosa trascinato per terra, percettibile solo grazie a quella sorta di campana di vetro nella quale la nebbia aveva chiuso il quartiere. Appiattì la schiena contro il muro di un caseggiato che, dal poco leggibile sulle insegne, aveva ospitato banche, gioiellerie, ristoranti, persino un salone di bellezza. Attese cercando di mimetizzarsi con l’intonaco annerito dal fumo degli incendi.

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Si era distratta, inutile negarlo. Impegnata a forzare una scatoletta il cui interno trasudava odore di carne inacidita, non aveva colto in tempo la relazione tra la mancanza di vento e lo scompiglio di nebbia all’imbocco della via. In compenso si era accorta che i canini erano riusciti a penetrare il metallo trasferendole in bocca il sapore del cibo. Una sensazione di trionfo aveva invaso la mente scatenando scintille sotto le palpebre. Con un morso aveva finito di sollevare il coperchio e, senza badare agli orli che tagliuzzavano le labbra e ai vermi che solleticavano il palato, aveva addentato con rabbia, più che con avidità, il contenuto della scatoletta, quasi a ribadire una volontà di sopravvivenza negli ultimi giorni indebolita dagli stenti. Solo allora aveva preso coscienza della minaccia. Costretta dalla condizione di preda a collegare continuamente causa a effetto, non aveva interrotto il lavorio mentale che andava dalla percezione alla catalogazione di ogni suono, odore, immagine, lo aveva solo rallentato per la soddisfazione di un bisogno fisico. Così, anche se in ritardo, aveva avvertito il consueto tic cerebrale e, subito dopo, il violento sprazzo di luce fredda con il quale le cellule, terminata la catalogazione, registravano l’imminenza del pericolo. S’ingobbì fino a rasentare con le spalle il terreno, abbassò il collo e aprì lentamente la bocca lasciando scivolare la scatoletta; poi, altrettanto lentamente, sollevò il busto, vinse il naturale impulso di scappare e indietreggiò con calma, un passo alla volta, attenta a mantenere l’equilibrio sull’asfalto, per un istante lo perse, un calcagno sdrucciolò nel fango, di nuovo un passo indietro, piano, piano, piano fino a che non si trovò a ridosso di una chiesa con la facciata per metà sommersa dai rampicanti. Il cassonetto! Digrignò i denti ricordando di non aver abbassato il coperchio del cassonetto. Fu tentata di tornare indietro ma la consapevolezza di aver commesso un errore la distolse dal commetterne un secondo a quel punto irrimediabile, Gocce di condensa cadevano a intervalli regolari da un rosone intorno al quale nereggiavano grossi fori di proiettili, un ticchettio monotono  – plop plop plop – armonizzato con i suoi battiti cardiaci – plop tum plop tum plop tum – e con il rumore di qualcosa trascinato a fatica sul pavimento della navata, qualcosa che l’olfatto catalogò ancora prima del cervello. Concentrò l’attenzione sull’estremità della via dove la nebbia continuava a spostarsi in maniera impercettibile, tra sbuffi biancastri simili a quelli di un respiro a lungo trattenuto. Lo vide, con gli occhi della mente vide una sagoma dai contorni grossolani, un’ombra pallida capace di muoversi con la leggerezza di una farfalla. Un cacciatore, uno dei tanti che per anni si erano accaniti contro la sua razza al punto da provocarne l’estinzione. Lo sentì mentre annusava la scatoletta, la schiacciava, riduceva in poltiglia il cibo e nel rumore di metallo contorto e carne spiaccicata percepì la soddisfazione di chi, privandola di una fonte di sostentamento, era certo di fiaccare la sua resistenza. No, non uno dei tanti, la fatalità non gli aveva messo alle tacche un cacciatore qualsiasi, uno che avrebbe perso la bussola al primo confondersi di un’orma, al primo indebolirsi dell’usta. Questo era abile, scaltro, spietato, per farsi beffe di lui era necessario disorientare le sue capacità intellettive. Rasentò il muro della chiesa dove, all’interno, lo strascinio continuava alternato a pause di silenzio, superò i blocchi di marmo disseminati nei pressi del portale, s’acquattò dietro il busto senza testa di un angelo e attese che la vista confermasse quanto suggerito dall’olfatto. Non se ne rese conto ma sulla sua faccia apparve qualcosa di molto simile a un ghigno. Aveva capito come farsi beffe del cacciatore.

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Non importava quanto fosse lunga l’attesa, per lui il tempo era una sequenza talmente rapida di attimi da renderne inutile la misurazione. Aveva sentito di strumenti costruiti apposta per farlo, di improbabili oggetti con lancette in movimento all’interno di un quadrante, ma rifiutava di credere che qualcuno avesse dirottato la creatività verso qualcosa di così banale. A contare era il presente, punto e basta, solo nel presente gli eventi avevano modo di compiersi. Proprio in quell’istante ne accadeva uno, lo capì dal trascinio che di colpo cessò sfumando in una nota bassa subito soffocata. Durò un battito di ciglia ma bastò a un udito esercitato come il suo per riconoscere la reazione disperata di un animale in trappola. Il silenzio che seguì gliene diede conferma. Troppo completo per essere naturale, somigliava alla pausa fra la luce di un lampo e lo scoppio del tuono, quando la natura si contrae in attesa di un evento di cui conosce i segni ma non gli effetti. Dentro di sé non poté fare a meno di complimentarsi con la preda: stava improvvisando una sceneggiata che, ne era certo, avrebbe ingannato chiunque non fosse a conoscenza delle sue risorse inventive. Avrebbe ingannato anche lui se la muta, quasi impercettibile nota di terrore non gli avesse indicato l’ubicazione del nascondiglio. Non si trovava lontano, senza tanta nebbia a camuffare gli odori, sarebbe riuscito a stabilire il punto esatto, probabile l’interno di quella chiesa diroccata sul lato opposto della piazza. Prevedeva quale sarebbe stata la prossima mossa della preda e si preparò a neutralizzarla.

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Il gatto, un esemplare striato dalle costole sporgenti sotto la peluria, emerse dall’oscurità del portale trascinando a fatica la carcassa di un coniglio selvatico, probabilmente uno degli ultimi erbivori sopravvissuti alla scomparsa delle coltivazioni. La preda riconobbe nei suoi sforzi gli stessi che faceva lei per sopravvivere e una sensazione strana, mai provata, un moto istintivo di solidarietà, impedì ai riflessi di scattare con la consueta rapidità, all’arto di stringersi con la dovuta forza intorno al collo dell’animale. Sentì un rantolo forzare la bocca del felino, l’accenno di un verso strozzato sul nascere, e temette di essersi tradita avvertendo l’eco sminuzzarsi tra le pareti della via. Allertò i sensi, rafforzò la stretta, uscì dal riparo, spostò qua e là lo sguardo. Nulla pareva cambiato là fuori, neanche un ricciolo di nebbia a sfaldare la compatta cortina di bianco, tutto immobile come nell’imminenza di una tempesta. Il gatto penzolava inerte, solo il leggero pulsare della carotide e i sussulti nervosi della coda testimoniavano una vitalità pronta a esplodere di nuovo. La preda sporse lentamente l’arto e, dopo un paio di oscillazioni, lanciò a tutta forza il gatto verso l’imbocco della via. Uno gnaulio rabbioso lacerò il silenzio, seguito dal grattare delle unghie sul selciato e dallo scomporsi e ricomporsi della nebbia alle spalle dell’animale. Poi niente. Quiete assoluta. Con uno scatto la preda balzò allo scoperto e attaccò a correre nella direzione opposta.

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La sua previsione si rivelò esatta. Aveva appena compiuto il giro dell’isolato quando sentì uno gnaulio e, subito dopo, l’inconfondibile calpestio di unghie e piedi lanciati nella corsa. Aggirò l’angolo dell’edificio, un ipermercato con l’insegna sommersa dalle muffe, le vetrate a pezzi, le porte penzolanti sui cardini, e arrivò in tempo per vedere la preda sbucare dalla nebbia, zigzagare tra le carcasse bruciate di due o tre auto, arrestarsi a pochi metri da lui. Si trattava di un esemplare femmina, lo capì dalla rotondità dei fianchi e dalle grosse mammelle che si alzavano e abbassavano nell’assecondare lo sforzo dei polmoni. La vide dilatare gli occhi, sorpresa più che impaurita, poi scartare di lato alla ricerca di una via di fuga alla quale, probabilmente, neppure lei credeva più. La osservò mentre, mulinando goffa gli arti inferiori, provava inutilmente a ingannarlo con una finta a destra seguita da uno scarto a sinistra. In carne e ossa gli sembrò diversa da come la raffiguravano i libri: sotto il sudicio, la pelle appariva disgustosamente bianca, delicata, con venature azzurrine lungo gli arti, peluria arricciata sull’inguine, liscia e gialla sul cranio, una pelle sottile al punto da sembrare trasparente in corrispondenza delle articolazioni. Supposto che il corpo dei maschi presentasse un rivestimento altrettanto fragile, dubitò della fondatezza delle tesi secondo cui il genere umano era riuscito a vivere per millenni. Allungò un tentacolo e bloccò la preda al polpaccio un attimo prima che voltasse l’angolo. Non lo sorprese il fatto che, anziché lottare, si limitasse a emettere suoni striduli dall’orifizio presente nella parte inferiore del muso, poco più sotto del beccuccio carnoso dal quale il respiro sibilava prima di condensarsi in sbuffi di vapore. Libri e realtà in questo caso collimavano: “Il genere umano – stava scritto nel testo di storia di suo figlio – nell’affidare alla tecnologia i compiti fin lì svolti dalla mente, si indebolì via via che l’esaurimento delle riserve energetiche azzerava la funzionalità dell’elettronica e dei suoi derivati informatici”. E ancora: “…il progressivo impoverimento energetico provocò conflitti tra le razze umane che, nel tentativo di prevalere una sull’altra, si indebolirono ulteriormente”. Il cacciatore allungò un secondo tentacolo e sollevò la preda in modo da guardarla dritto negli occhi, in modo da cogliere nel suo sguardo un barlume del potere che aveva illuso gli umani di padroneggiare l’universo. Vide solo due pupille appannate che si dilatavano in una muta richiesta di pietà e la cosa lo disgustò più ancora del contatto con il suo corpo viscido. Mentre le avvolgeva la gola nella spirale di un terzo tentacolo, si chiese se era davvero il caso che la pelle di quel ridicolo animale figurasse tra i suoi prestigiosi trofei di caccia.