Racconto di Luigina Parisi

(prima pubblicazione – 10 aprile 2020)

 

La paura sovrastava i miei passi e il sangue pulsava forte assordando i miei sensi. Non sentivo le mie mani; erano fredde come fatte di neve. Stringevo quella corda senza sentirne la sostanza, eppure non la mollavo. Mi inoltravo sempre più nel bosco spogliandomi di tutti i miei pensieri, solo la paura restava con me. Era densa, pesante, tanto da rendermi grave il passo, era scura come quel temporale che avevo visto dalla mia finestra, quando quella notte aspettavo il ritorno di mia madre dal lavoro. Tante volte l’ho aspettata, senza riuscirci fino in fondo. Mi ritrovavo la mattina nel letto, accanto al suo corpo caldo dal profumo inconfondibile. Le toccavo i capelli, segno certo della sua presenza e mi riaddormentavo felice.
Quanto tempo era passato da allora, quante volte la vita mi aveva ferito? Quante volte ero caduto? Quante volte rialzato?
Ricordavo ancora con angoscia infinita quell’ultimo mio risveglio vicino alla finestra, mentre fuori infuriava la tempesta. Ero gelato, braccia e gambe intorpidite a causa della lunga permanenza appoggiato al davanzale di marmo, il cui freddo porto dentro di me da allora.
L’ orologio segnava le cinque del mattino.
Lei non era tornata, non ancora.
Pioveva forte, fortissimo, e il vento faceva mugghiare porte e finestre. Osservavo nei campi, a causa dello sbisciare dei lampi, il movimento ondoso del grano, sferzato da forze che m’apparivano demoniache.

Tremavo senza capire se fosse per il freddo.

Avevo paura.

Credo di aver avuto sempre paura da allora, ogni giorno.

Arrivai al fiume e al grande albero che mi aveva visto bambino; ecco sarebbe stato facile salire lassù. Lo avevo fatto mille volte, una volta di più e tutto sarebbe finito, anche quella repulsione per il giorno che arrivava, anche quella paura.
Anche Laura non era più tornata. Era andata via portandosi il bambino.

Non so se davvero c’è rabbia nei miei visceri, se davvero sono così insopportabile o se la sua smania di vivere di corsa avesse prevalso sul mio bisogno di pace.
E pazienza, mi sono detto. Non era destino. Ma c’è il bambino. Che colpa ne ha se noi abbiamo preso un abbaglio, se il nostro amore si è spento come fuocherello di paglia?

“Sei sciatto, amico mio” – mi ha detto il mio collega. “Non puoi presentarti in ufficio in questo modo. Dove stai di casa ora che ti sei separato?”

“Dormo da amici” è la mia risposta, ma si capisce bene che questi amici non hanno un bagno dove rendersi decenti; non hanno un letto morbido e caldo dove passare le notti burrascose di un separato per amore.

Si, per amore sono fuori casa, per lasciare l’aria pulita a Diego, farlo stare bene, anche se mi mancano le sue manine la sera mentre si addormenta con le storielle che invento per lui. Mi manca, più del letto, più della doccia, più del tetto caldo.

Spesso Rina mi ospita in casa. L’ho conosciuta sulla strada. Dice che le ho fatto pietà. Capite? Ho fatto pietà a una donna che lavora per strada, che si accompagna a chiunque pur di mangiare. Lei una casa ce l’ha, piccola e scomoda, coi muri scrostati, impregnata di fumo di sigaretta, ma comunque casa.  Rina era bella un tempo.

Mi fa vedere le foto.

Era giovane.

Le sue mani senza più lo smalto della giovinezza ogni tanto mi accarezzano e vorrebbero donarmi la dolcezza di cui lei crede io abbia bisogno.

È di questo che ho bisogno? – mi chiedo.

Non so più rispondere a domande così difficili, per cui preferisco non farmele.

Continuavo a camminare con quella corda in mano e con la stessa repulsione per il giorno.

E il giorno arrivò coi suoi raggi delicati dapprima e poi, via via, più intensi. Da quanto non mi guardavo allo specchio? La pozzanghera ai miei piedi mi diceva chi ero. Un uomo solo con una corda in mano. Non c’era alcuna ninfa a concedermi un bacio, nessuna danza che rallegrasse la vista.

Ma l’oro del giorno saliva a illuminare le frange di foglie sopra il mio capo, scompigliato e confuso.

I colori dell’alba hanno qualcosa di magico, sono i colori dei nuovi inizi, danno sostanza alle canne al vento stagliate nel cielo, profumano di terra bagnata e bucato steso al sole, aprono vie verso lo stupore.

Mi pareva che il soffio del vento che induceva le foglie a stormire avesse qualcosa da dire anche a me, qualcosa che ancora non sapevo, qualcosa che ancora non avevo capito. Sono stati i colori dell’alba a sedare la mia anima smarrita, ad asciugare le lacrime cadute nel buio della notte. Il giorno che avanzava con l’orgoglio di un lupo m’attraversava e squinternava i miei gesti.

Il mattino saliva dolceamaro con gli occhi di mio figlio che forse stava sognando le nostre corse sulla spiaggia. Mi osservai le pieghe delle mani e lasciai scivolare la corda nel fiume. Avrei voluto essere un albero scosso dal vento, il fiume che scorreva lento, il lupo che sa correre fuori dal branco, ma ero un uomo soltanto che desiderava per se un’altra possibilità.

Tornare e ricominciare.

 

 

Tratto da Malurmia – VJ Edizioni