Racconto di Francesca Coppola

(Settima pubblicazione)

 

A Poggioreale vive un cimitero in cui tutte le sere sembra di udire un gran baccano. Sono pochi e lontani i giorni di viavai, dove le ombre presentano fiori a qualche parente. Ieri è capitato che la statua di Padre Pio abbia perso il braccio e da allora, più di un umano ha fatto capolino a passo spedito. Qui non esistono orologi, il tempo è un brivido che scorre fra le tombe e i suoi innumerevoli occupanti.

Nelle notti senza pioggia c’è un mercante che vaga incessantemente per vendere il piccolo veliero che gli hanno messo fra le mani. Oreste non ha un cognome, sa di non essere mai sceso da quella imbarcazione, neanche quando ha toccato il fondo. Litiga spesso con Amilcare, il restauratore coraggioso che fa di ogni data un conteggio – deformazione professionale – gli confessa e così il mercante lo prende in giro per i preventivi, perché pare li faccia in base all’antichità dell’epigrafe. Ci sono martiri spogliati degli orpelli come San Francesco e San Venanzio, che se la ridono mentre giocano a nascondino; altri restano fissi nelle teche per non sgualcire i lunghi vestiti. Che ci sia luna piena o le nuvole, il marinaio vaga confuso, lo senti suonare e piangere, Palladio non ha mai dimenticato la sua sirena. Giulio, gatto dal pelo corto li conosce tutti, ha più amici di quanti io possa contarne su ogni social, anche i suoi come i miei però sono invisibili, sopravvivono al buio e raccontano silenzio. In 294 bussano e, ad un certo punto, la necropoli diventa un ricevimento per oltrepassati, animali e pazzi. Giulio si sente un gigante quando avanza col suo passo morbido e un occhio solo. Lui che ha perso parzialmente la vista a causa di petardi maneggiati da bambini, sa fin troppo bene che l’indifferenza spesso non protegge chi è più indifeso. Aveva gambe all’aria quando quei quattro mostriciattoli decisero di provare i botti non esplosi, il giorno dopo la notte più rumorosa dell’anno: lo scoppio, l’annebbiamento, il dolore lo condussero fra braccia impercettibili ma altamente consolatorie. E non era il camposanto, per lui, non ancora una fossa scavata da arti laboriose ma la scelta di vivere la vita fra i morti, la più dolce di ogni decisione. Giulio annusa i fiori e qualche volta, come un vero macho spagnolo, li porta a spasso, stretti sotto i baffi e una folla di curiosi lo segue su e giù per i vicoli nascosti. Il cuore si rapprende quando il giro finisce e lo sguardo cade su un omaggio da togliere il fiato; sì, perché lui sa che c’è chi non dorme solo perché crede di essere dimenticato, e piange, e prega affinché qualcuno rallegri di rose la sua lastra rotta. Cinquantanove centimetri di macchie variopinte e quasi immagini i suoi discorsi, quando lo vedi sostare presso qualche monumento assai più vecchio. Quante sere a giocare a tre carte con il maresciallo francese e il giovanissimo rampollo morto suicida, poi non manca di passare anche da don Luigi che gli ha insegnato l’Ave Maria.  Giulio ha imparato a conoscere tutti i piccoli abitanti della chiesa bianca e fa da padre a quelli nati esanimi, a quelli che la luce l’hanno vista solo dopo e a quelli che al dolore sono sopravvissuti insegna amore e compassione. Come il sindaco di una città fantasma, come un missionario in India, come chi non scrive poesia ma magicamente la crea, sa che alla fine del suo giro, qualcuno lo aspetta: è “Ninetta dei miracoli” che ogni volta gli prepara il cantuccio fra coccarde e carillon e dovreste vederlo quando quel musetto nero s’infiamma e le campane delle 6.30 diventano la più dolce ninna nanna.

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