Racconto di Giovanni Boncristiani

(Settima pubblicazione)

 

 

Una volta scrivevamo lettere, niente internet e niente telefono.

Il sabato sera ci radunavamo tutti attorno al tavolo di cucina, quello freddo in formica verde edera con le quattro sottili zampe cromate come le maniglie di un’auto d’epoca, mia madre, mio fratello ed io; mio padre scriveva, dato che era dotato di bellissima calligrafia appresa quando aveva fatto le scuole e ancora lì si insegnava quell’arte. Ciascuno dava il proprio contributo, poi babbo, dopo qualche istante di silenzio, vergava compiaciuto, sul foglio bianco leggermente velato, ciò che diventava immodificabile, un po’ come quando gli antichi scrivevano scolpendo nella pietra le frasi per i posteri.

Tutto durava, più o meno, quanto dura una messa. In seguito, sempre mio padre, rileggeva la lettera immaginando coloro che l’avrebbero letta. Il foglio veniva poi ripiegato in quattro parti con cura e precisione, come si usava fare allora per tutte le cose da quelle più semplici a quelle più importanti. Tutto meritava quella attenzione.

Poi la busta!

Occorreva la busta, io e mio fratello, ancora piccoli, correvamo al cassetto del grande armadio della sala per prenderla, mentre mio padre, immobile, teneva il foglio ripiegato con la mano destra leggermente staccata dal tavolo un po’ come il prete tiene l’ostia nel momento dell’ostensione e la sinistra pacatamente poggiata sul piano.

Collocato il foglio all’interno della busta e bagnato il bordo del lembo apribile con un dito inumidito con l’acqua della cannella, la busta veniva richiusa. Mamma prendeva poi la busta dalle mani di mio padre, sembrava che questa non dovesse toccare nient’altro e null’altro come se si potesse infettare di non si sa cosa. Il giorno seguente, mia madre si sarebbe recata all’appalto per acquistare il francobollo e, dopo averlo incollato sulla busta, questa sarebbe stata ingoiata dalla cassetta rossa quella appesa accanto all’ingresso del negozio.

Sarebbero passati diversi giorni prima che la lettera arrivasse a destinazione, anche se mia zia abitava a soli cento chilometri da casa nostra. Una volta le Poste funzionavano così …

Trascorse più o meno un paio di settimane, arrivava la replica alla nostra lettera. La sera stessa mio padre la apriva e ne leggeva il contenuto a tutti noi. Dopo qualche giorno ancora, a seconda anche di cosa accadeva, ci ritrovavamo a riscrivere l’ennesima lettera, e tutto continuava così come se questo facesse parte di una sorta d’ineludibile rituale.

Questa piacevole abitudine familiare si interruppe con l’avvento in casa nostra, come peraltro in quella di molti altri, del telefono fisso, quello color nocciola con la ghiera trasparente e i numeri che facevano capolino dalle tonde fessure, tanto che sembravano piccoli occhi roteanti.

Erano gli anni sessanta e ricordo ancora che la “formula” del contratto telefonico era chiamata “duplex” e si poteva telefonare solo quando non lo faceva una nostra anziana zia, che abitava vicino a noi e con la quale condividevamo il servizio, ma questa è un’altra storia…