Racconto di Marina Cerni

(Sesta pubblicazione)

 

Rannicchiata nella grotta di tufo ascoltavo il tonfo delle granate che esplodevano lontano, nauseata dall’ odore acre emanato da compagni e parenti, tutti stipati lì dentro.

Nessuno parlava, il respiro era accelerato, così come il ritmo cardiaco, a tamburo battente.

Gli occhi si erano abituati alla penombra della grotta, chiusa da frasche di frassino e sambuco per mimetizzarsi nella vegetazione; in questo modo speravamo fosse inaccessibile per chiunque non conoscesse il nostro nascondiglio.

Non potevamo far altro che ascoltare il susseguirsi delle esplosioni, pregando che finisse l’attesa straziante e tornasse il silenzio.

Il fronte passava, ma lo faceva insieme all’ingenuità e la spensieratezza della nostra infanzia, che nessuno più ci avrebbe restituito.

La grotta era la protezione che la famiglia impotente non ci poteva più offrire, era l’unica salvezza ed anche il nascondiglio dei contadini, che mettevano al riparo dalle razzie tedesche insaccati, olio e farine.

Ancora oggi sento tra le dita la sabbia dell’arenaria che si insinuava tra le vesti e tra i capelli e che, a volte mi irritava gli occhi. È così forte la sua presenza nel ricordo che inconsciamente la cerco con le dita, sulla mia pelle e tra le lenzuola del mio letto, che è diventato ora la mia attuale grotta nel tufo, il nascondiglio dalle avversità del mondo.

Quasi sicuramente, il brusio leggero nel silenzio delle nostre voci tremanti, unito probabilmente alla chiusura maldestra delle fronde, segnalò una potenziale presenza umana ad un drappello di tedeschi che, all’improvviso, con una scarica di mitra in aria, ruppero il nostro silenzio, facendoci saltare il cuore in gola. Urlando, ci intimarono di stare fermi e di far uscire tutti gli uomini che, tra i nostri pianti disperati, lasciarono il nascondiglio e furono fatti salire su un camion che era diretto a Rimini.

Noi bambini, insieme alle donne, rimanemmo immobili per ore, piangendo e tremando, mentre le anziane sussurravano il rosario nel buio della grotta.

Sul far del mattino, con la prima luce dell’alba, all’improvviso risuonò da fuori la voce di mio padre che con immensa meraviglia di noi tutti noi, urlò: Siamo tornati, siamo fuggiti!!

Con immensa gioia, apprendemmo da babbo e da mio fratello che loro, con uno sparuto pugno di uomini, erano riusciti a fuggire, saltando dal camion in movimento, nel punto conosciuto come “Gorga tonda”, un’ansa del fiume Foglia, un tratto profondo e che permetteva, a chi lo conosceva bene, di tuffarcisi e rimanere nascosto alla vista. In questo modo si salvarono, evitando così la inevitabile deportazione in Germania. L’altro mio fratello, insieme a dei compagni non era ancora riuscito a raggiungerci, a causa del cordone di controllo dei tedeschi ed attendeva un varco nella sorveglianza, per poter rientrare in paese.

Esaurita l’eccitazione e la gaiezza dell’inaspettato ritorno di due dei miei cari, spinta dal desiderio di rimettere piede nella mia casa, dove alcune donne erano rientrate per preparare del cibo, incurante del rischio nell’abbandonare la grotta, sgattaiolai fuori con mia sorella.

Eravamo piccole, non capivamo il reale pericolo ed eravamo stanche della lunga permanenza, immobili e al buio. Avevamo fame di aria, calore e cibo. Entrammo in casa ma solo per uscirne, di nascosto, dal retro. Stavamo per raggiungere un forno lì vicino, quando all’improvviso una scarica di cannoni puntati verso il nostro abitato raggiunse la nostra abitazione, facendo crollare parte della scalinata dell’ingresso.

Una pioggia di proiettili cadde in tutta l’area, noi eravamo rimaste immobili, abbagliate dal fuoco che lampeggiava in lontananza, incapaci di muoverci come fossimo inchiodate a terra da una misteriosa forza, mentre il panico che ci possedeva ci impediva di prendere una direzione di fuga.

Avvenne tutto in una manciata di secondi e solo un attimo dopo, due mani possenti ci afferrarono e ci gettarono tra i cespugli che circondavano le abitazioni.

Era una vegetazione piena di spine di rovo, che ci graffiarono la pelle a sangue ma che ci salvarono probabilmente la vita. Non ricordo a chi appartenessero quelle miracolose mani perché di quei concitati momenti, carichi di terrore, ricordo solo il nostro pianto liberatorio, le urla di nostra madre, atterrita e arrabbiata, la nostra corsa di nuovo verso la grotta, il ventre caldo e sicuro di nostra madre terra.

Ora, in questa nuova guerra che neanche la mia sfrenata fantasia di bambina avrebbe potuto immaginare, la trincea è il distanziamento sociale, quel plexiglass che mi divide dai miei figli, la grotta nel tufo è diventa la mia camera nella residenza protetta, inaccessibile al mondo ma anche a chi vorrei accanto.

Attendo come allora che passi il fronte, che il virus non scopra il nostro nascondiglio, che si allontani facendoci uscire dalla penombra alla chiarezza, al calore del sole e degli affetti.

Una grotta nel tufo ci attende in ogni momento della vita, in ogni dolore, ci fa scudo anche nella ordinaria e quotidiana violenza, dalla quale non sappiamo difenderci.

In questo nuovo viaggio, attraverso un caleidoscopio di emozioni e di ricordi, mi vedo bambina, mi rannicchio tra la sabbia dell’arenaria e attendo.